Flavio Brugnoli
Commento n. 198 - 2 novembre 2020
Il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in un suo recente discorso ha definito la “autonomia strategica” per l’Europa “l’obiettivo della nostra generazione”. Qualche giorno dopo, proprio il Consiglio europeo, nelle Conclusioni della riunione straordinaria dell’1-2 ottobre scorsi, ha indicato che “Raggiungere l’autonomia strategica mantenendo nel contempo un’economia aperta è un obiettivo fondamentale dell’Unione”. Un’opzione, quella dell’autonomia strategica, che era già stata evocata nella EU Global Strategy, presentata nel giugno 2016 dall’allora Alto Rappresentante Federica Mogherini, e che oggi è diventata un riferimento trasversale, inter-settoriale. Il perché va cercato nei grandi cambiamenti che abbiamo vissuto in questi anni: dalla crisi della globalizzazione, all’irruzione di Donald Trump sulla scena mondiale, all’emersione di giganti quali la Cina, all’impatto economico e sociale della pandemia ancora in corso. Il Covid-19 è quindi un potente acceleratore di questa spinta, ma non ne è stato la causa prima.
Cerchiamo di inquadrare meglio di che cosa stiamo parlando. In un eccellente studio del Servizio Ricerca del Parlamento europeo si definisce l’autonomia strategica “la capacità di agire autonomamente e di scegliere quando, in quale area e se farlo con partner affini”. Si è autonomi da qualcuno, ma anche per qualcosa. È necessaria la volontà di agire, ma occorre la capacità per farlo, dentro un quadro di interessi e valori condivisi. Autonomia non è un illusorio isolamento, in un mondo interdipendente: è coerenza fra fini e mezzi, consapevolezza di doversi dare “les moyens de ses ambitions”. In questo senso, siamo di fronte a un processo graduale, in divenire – con talvolta il rischio di confondere i desideri con la realtà. Si può dire di disporre di un’autonomia strategica se si è credibili nelle proprie scelte e conseguenti nelle proprie azioni. Solo così si può provare a essere soggetti attivi in alleanze e contesti multilaterali, senza subire passivamente scelte unilaterali altrui.
Ursula von der Leyen all’inizio del suo mandato ha sottolineato che la sua intendeva essere una “Commissione geopolitica”, consapevole dei nuovi equilibri mondiali. La politica estera dovrebbe quindi essere il terzo pilastro nella strategia della Commissione, accanto a quelli della transizione verde e della transizione digitale. Cominciamo dal primo: il Green Deal europeo vuole essere il veicolo di una radicale trasformazione eco-sostenibile. L’obiettivo epocale della neutralità climatica dell’Unione entro il 2050 ha anche implicazioni importanti sulla sua autonomia. Per un continente che importa oltre la metà del proprio fabbisogno, la sicurezza energetica è un grande problema e la decarbonizzazione e il ricorso alle energie rinnovabili sono una grande opportunità. Anche di politica estera: una scelta che da un lato potrebbe vedere un partenariato sulle rinnovabili col continente africano, dall’altro sarebbe “difesa” con l’introduzione di una tassa sul carbonio alla frontiera, sui prodotti di paesi extra-europei meno attenti all’ambiente. Una via su cui l’Ue potrebbe trovare alleata un’Amministrazione Biden, ma certo non una Trump bis.
Per quanto riguarda il digitale, il tema della “sovranità tecnologica europea” ha assunto una rilevanza prioritaria nell’agenda dell’Ue. Ed è esperienza quotidiana come la pandemia abbia acuito il bisogno di infrastrutture digitali efficienti e diffuse. L’Europa si muove in un contesto dominato da mega-imprese americane e cinesi, mentre la frontiera tecnologica si sposta su più fronti – dal 5G all’AI – e la cybersecurity diventa una questione vitale. L’Ue si sta finalmente dotando di una politica industriale e di ricerca adeguata a queste sfide: valga come esempio quanto sta avvenendo con il Cloud europeo. D’altro canto, anche in un mondo come il web, che si credeva senza confini, stiamo assistendo all’emersione di una “geopolitica del digitale”, intorno a piattaforme continentali, non di rado da parte di regimi (semi-)autoritari interessati al controllo tanto delle tecnologie della rete quanto delle informazioni che i loro cittadini vi fanno circolare.
Come detto, il tema dell’autonomia strategica dell’Europa è emerso ben prima della Covid-19, ma è con la pandemia che tutti i paesi europei hanno toccato con mano gli effetti collaterali del processo di globalizzazione. L’allungamento delle “catene del valore” e il trasferimento in terre lontane di intere filiere produttive hanno mostrato i loro limiti – e trovato il loro simbolo nella scarsità iniziale di mascherine. Uno degli esiti più probabili della crisi in cui siamo immersi sarà un ricentraggio su scala continentale delle grandi economie, pur senza cadere nella trappola del protezionismo: accorciamento delle catene del valore, individuazione di filiere strategiche, scelte che favoriscano la creazione in tali filiere di “campioni europei”, maggiore vigilanza sugli investimenti strategici da parte di soggetti extra-europei (a partire dalla Cina), rafforzamento del ruolo internazionale dell’euro. Ma è nella risposta alla crisi scatenata dalla Covid-19 che l’Ue si giocherà molto del suo futuro. Il varo di Next Generation EU, con un’autonoma capacità d’indebitamento e nuove risorse proprie europee, è stato un grande passo avanti. Si è già aperto un salutare dibattito sul renderlo uno strumento permanente, verso un’Unione fiscale che consoliderebbe il ruolo dell’Ue su scala globale.
Se di autonomia strategica europea si è parlato anzitutto nel campo della difesa, è sotto gli occhi di tutti quanto in tale ambito il tema rimanga centrale. E qui veniamo al terzo pilastro nell’azione della Commissione “geopolitica” in carica. Ma parlare di questo in Europa oggi significa anche ragionare sul ruolo e il futuro della NATO – e delle relazioni transatlantiche. Già il Presidente Obama aveva sollevato la questione della scarsa contribuzione europea all’Alleanza; il Presidente Trump ha rincarato le critiche, con un misto di disprezzo e disimpegno. Sulla scia della EU Global Strategy, l’Ue ha compiuto passi rilevanti, con l’avvio del Fondo europeo per la difesa e della Cooperazione strutturata permanente (PESCO), della quale si stanno ora discutendo le priorità per la seconda fase (2021-25). Segnali negativi sono invece venuti dai tagli alla difesa da parte dei Paesi membri nella ipotesi di Quadro Finanziario Pluriennale 2021-27 (13 miliardi di euro allocati, a fronte dei 30 proposti dalla Commissione). Quali scelte è chiamata a compiere un’Unione che deve disporre di un hard power credibile, ma non aspira a essere una potenza militare globale? Il tema sarà al centro dello Strategic Compass lanciato nel giugno scorso dai Paesi membri. Si partirà da un’analisi delle minacce cui è esposta l’Ue, che sarà presentata entro l’anno dall’Alto Rappresentante Josep Borrell. I lavori successivi si incentreranno su quattro aree – crisis management, resilienza, capabilities, partnership –, per approdare a un documento finale da approvare nel 2022. Facile prevedere che il tema della (maggiore o minore) autonomia strategica europea farà da sfondo all’intero esercizio.
Il 2020 avrebbe dovuto vedere anche il varo dell’attesa Conferenza sul futuro dell’Europa, ma la pandemia per ora ha deciso altrimenti. Di fatto, con il citato Next Generation EU la prima parte della Conferenza si è già svolta: sono state poste le basi economiche e sociali per un pezzo fondamentale del futuro dell’Unione. Fare buon uso di quelle risorse, per superare in modo innovativo ed inclusivo i tragici guasti della pandemia, sarà la sfida decisiva. La “seconda parte” della Conferenza dovrebbe riguardare il posizionamento internazionale dell’Unione, il significato dell’essere europei in un mondo scosso da cambiamenti profondi, aggravati dalla pandemia. Sarà anche un interrogarsi su come combinare la nostra “autonomia strategica” con l’indispensabile rilancio del multilateralismo. Al termine di questo percorso, sarà necessario valutare se l’attuale architettura istituzionale europea sia davvero all’altezza delle nostre ambizioni strategiche, stretti fra vecchi e nuovi giganti più abituati di noi al duro “linguaggio del potere”.
*Direttore del Centro Studi sul Federalismo (pubblicato il 30 ottobre scorso da Europea, la piattaforma dei think tank su Euractiv.it)