Banca europea per gli investimenti: una Climate Bank per l’Unione

Olimpia Fontana
Commento n. 185 - 16 luglio 2020

La Banca europea per gli investimenti (Bei) è forse una delle istituzioni europee meno note nel dibattito pubblico, tanto da essere stata definita la “istituzione trascurata” nell’ambito della complessa architettura comunitaria. Ma in occasione della crisi provocata dalla pandemia da coronavirus i riflettori si sono accesi anche sugli interventi della Bei, a fianco di strumenti quali il quantitative easing pandemico della Bce, la linea sanitaria del Mes, il SURE per i lavoratori in cassaintegrazione e successivamente il Next Generation EU. La Bei, quale istituzione finanziaria della Ue, sta svolgendo un ruolo rilevante nell’affrontare non solo l’ultima delle emergenze, quella legata al Covid-19, ma soprattutto – come vedremo – la sfida di lungo termine per eccellenza, il cambiamento climatico.

Il 26 maggio la Bei ha approvato il nuovo Fondo di garanzia paneuropeo (Pan-European Guarantee Fund) rivolto soprattutto alle piccole e medie imprese, in risposta alla crisi economica causata della pandemia. Il fondo da 25 miliardi dovrebbe mobilitare investimenti nell’ordine di 200 miliardi di euro, grazie alla co-partecipazione del settore privato, e sarà alimentato da garanzie di tutti i 27 paesi membri, con un contributo proporzionale alla loro quota di capitale nella Bei (circa il 19% per Italia, Germania e Francia, ovvero 4,75 miliardi di euro ciascuno). Tuttavia, il Fondo diventerà operativo non appena gli Stati membri che rappresentano almeno il 60% del capitale avranno firmato i loro accordi di partecipazione.

I fondi erogati dal nuovo strumento per la ricostruzione non saranno distribuiti secondo un criterio di quote-paese, come previsto ad esempio per il Next Generation EU, bensì sulla base della qualità dei progetti che saranno presentati alla Bei, anche se con parametri di concentrazione per i tre paesi più grandi e per i quindici paesi meno avvantaggiati. Dal punto di vista dell’allocazione settoriale, il ricorso al Pan-European Guarantee Fund dovrà essere compatibile con gli orientamenti politici comunitari. Ciò dovrebbe garantire che la fase di ricostruzione sia in linea con le priorità della lotta al cambiamento climatico e della sostenibilità ambientale, stabilite ben prima che la pandemia scoppiasse.

A livello mondiale l’Ue gioca un ruolo da protagonista nella questione climatica ed è pronta a essere ancora più ambiziosa negli anni a venire. Lo European Green Deal (EGD) lanciato da Ursula von der Leyen mira a rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. Con un articolato programma pluriennale, l’EGD darà corpo in modo organico e trasversale all’obiettivo sancito dall’Accordo di Parigi di limitare l’innalzamento della temperatura globale a 1,5 gradi al di sopra dei livelli preindustriali. In questo progetto, la Bei è chiamata dalla Commissione a trasformarsi in una “Banca per il clima”, ruolo che anche Emmanuel Macron aveva auspicato nel suo progetto di “Rinascimento europeo”, nel quale intende fondare il progresso scientifico dell’Europa proprio sulla sfida ecologica.

In realtà, il cambiamento della Bei è in atto da tempo: già nel 2015 si è dotata della Climate Strategy, con cui la questione ambientale diventa il principio guida per tutte le operazioni della banca, in particolare quelle relative ai prestiti. Un rafforzamento in tal senso è avvenuto nel novembre del 2019, quando il Consiglio di amministrazione ha adottato la nuova politica di prestito per l’energia (Energy Lending Policy, ELP) che prevede di eliminare in modo graduale, a partire dal 2021, il sostegno della banca a progetti energetici che dipendono da combustibili fossili, in linea con quanto disposto dall’Accordo di Parigi di rendere “i flussi finanziari coerenti con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente al clima.” (art. 2.1 (c)).

Secondo la Commissione europea, occorreranno investimenti aggiuntivi per sistemi di produzione energetica a basse emissioni per almeno 260 miliardi all’anno nel periodo 2021-2030, considerato come l’ultimo decennio utile per evitare danni irreversibili dal riscaldamento globale. La Bei sta facendo la sua parte: tra il 2016 e il 2019 ha supportato investimenti per 84 miliardi di euro; la quota di prestiti devoluti all’ambiente è passata dal 25% del 2012 al 31% del 2019. L’obiettivo è di arrivare nel 2025 a destinare il 50% dell’attività di prestito a progetti volti alla tutela dell’ambiente. Le operazioni si concentreranno su investimenti per l'efficienza energetica, soprattutto negli edifici residenziali, per la produzione di energia da fonti rinnovabili e a supporto di innovazioni tecnologiche e nuove infrastrutture energetiche. Per potenziare l’attività di prestito della Bei e assecondarne le ambizioni sarà tuttavia necessario rafforzare la base capitale della banca, in modo da consentirle di far fronte a progetti più complicati e rischiosi che richiedono maggiori coperture.

Un aspetto cruciale per rendere efficace la lotta al climate change consisterà nel tradurre gli obiettivi di contenimento delle emissioni in criteri ben definiti in fase di selezione dei progetti. Sembra andare in tale direzione la misura prevista dall’ELP per cui solo i progetti per la produzione di energia elettrica che prevedono emissioni di CO2 al di sotto di una determinata soglia potranno essere ammessi al prestito. Inoltre, sarà necessario rivedere i valori di carbon pricing, ovvero i costi commisurati alla produzione di CO2, che la Bei applica quando conduce una valutazione economica dei progetti. I valori attuali, infatti, non sono allineati rispetto alle prescrizioni espresse dalla High-Level Commission on Carbon Prices (presieduta da Nicholas Stern e Joseph Stiglitz), secondo la quale il livello di carbon pricing, coerente con il raggiungimento dell’obiettivo di contenimento sotto 1,5 gradi di aumento della temperatura, è compreso tra 44 e 88 euro/tCO2 entro il 2030.

Le conseguenze economiche provocate dall’emergenza sanitaria da coronavirus potrebbero rendere più difficile per l’Ue realizzare lo European Green Deal, perché la decarbonizzazione delle industrie, dei trasporti, degli edifici dovrà fare i conti con una situazione economica generale tale da ostacolare investimenti che potrebbero comportare, a breve termine, maggiori costi. La svolta ambientale della Bei dovrà quindi porsi in sinergia con il resto delle misure dell’Unione, in particolare con quelle a sostegno della coesione, per evitare l’emergere di nuovi processi di divergenza economico-sociale all’interno dell’Ue, e della “giusta transizione” (che potrà beneficiare anche del Just Transition Mechanism per il settore pubblico, varato dalla Commissione d’intesa con la Bei), per rendere socialmente più desiderabile l’abbandono delle fonti fossili in quelle regioni la cui economia è ancora dipendente dall’uso del carbone. 

*Ricercatrice al Centro Studi sul Federalismo (pubblicato ieri da Europea, la piattaforma dei think tank su Euractiv.it)

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