Brexit: la fine, l'inizio della fine o la fine dell'inizio

Federico Fabbrini
C
ommento n. 163 - 13 dicembre 2019   

Giovedì 12 dicembre 2019 il Regno Unito ha votato. E ha nuovamente votato a favore di Brexit. In linea con le previsioni, le seconde elezioni generali in tre anni hanno segnato una clamorosa vittoria per il Partito Conservatore di Boris Johnson, che tornerà al 10 di Downing Street come Primo Ministro di un’ampia maggioranza parlamentare di Tories, determinati a “portare a termine la Brexit” (“get Brexit done”). Per contro, queste elezioni hanno segnato una sconfitta umiliante per il Partito Laburista guidato da Jeremy Corbyn, che ha pagato nelle urne la sua ambigua politica sulla Brexit. È stata una sconfitta anche per i Liberal-Democratici, che avevano impostato una campagna elettorale dichiaratamente anti-Brexit, ma che sono stati penalizzati dalla brutale forza razionalizzatrice del sistema elettorale uninominale a turno unico britannico.

Sulla base dei risultati definitivi odierni, il Partito Conservatore controlla ora 364 dei 650 seggi alla Camera dei Comuni, 66 seggi in più rispetto alla precedente legislatura, più che sufficienti per il Primo Ministro Boris Johnson per portare avanti la sua agenda per un’uscita del Regno Unito dall'Unione europea entro il 31 gennaio 2020. In effetti, Boris Johnson ha chiesto a ciascun candidato Tory di impegnarsi a sostenere l'approvazione dell'accordo di recesso rinegoziato con l'UE nell'ottobre 2019, che ora rende virtualmente la Brexit una certezza.

I risultati delle elezioni costituiscono invece un duro risveglio per l'opposizione, con l’eccezione dello Scottish National Party, che si impone di fatto come partito unico a nord del Vallo di Adriano, conquistando 48 seggi su 59. In particolare, la perdita di 42 seggi da parte dei laburisti rispetto alla precedente legislatura ha rivelato la debolezza di un’agenda politica che non ha saputo cogliere la centralità della Brexit nella competizione elettorale – prova ne sia che il partito l’ha relegata a pagina 85 dal suo “manifesto” di 107 pagine, quasi fosse una questione secondaria, cosa che ovviamente non è.

Boris Johnson è riuscito laddove Theresa May aveva fallito. Innanzitutto, ha rinegoziato l'accordo sulla Brexit con l'Ue, nell'ottobre 2019, trovando un modo per sostituire il backstop fra Irlanda e Irlanda del Nord con una soluzione alternativa, sia pure molto meno vantaggiosa per la Gran Bretagna. In secondo luogo, ha vinto un’elezione: mentre Theresa May era arrivata alle urne nel 2017 con una ristretta maggioranza e ne era uscita sotto di dieci seggi, Johnson ha massicciamente rovesciato il bilancio a favore dei conservatori, il che ora gli consentirà di avere una maggioranza adeguata per approvare la legislazione per dare seguito all'accordo di recesso.

Tuttavia, si sbaglierebbe a pensare che le elezioni di ieri siano la fine, o anche solo l’inizio della fine. Piuttosto, sono solo la fine dell’inizio. Quando il Regno Unito uscirà ufficialmente dall'Ue, il 31 gennaio 2020, avrà completato solo il primo – e in effetti il più semplice – dei passaggi del processo. Sarà poi necessario un lavoro cruciale e molto difficile per definire il quadro delle relazioni future con l'Ue, sia a breve sia a lungo termine.

Anzitutto, se l'accordo di recesso sarà ratificato in tempo, è previsto un periodo di transizione di 11 mesi, fino al 31 dicembre 2020. Questo periodo, inteso a mantenere il Regno Unito collegato al mercato interno e all'unione doganale dell'Ue, dovrebbe dare a entrambi il tempo necessario per negoziare un nuovo accordo, nel settore del commercio ma anche in altri ambiti, quali quelli della sicurezza e della difesa. È certo un compito impossibile in poco più di 300 giorni, motivo per cui esistono disposizioni per estendere di comune accordo il periodo di transizione fino al dicembre 2022. Ma Boris Johnson ha categoricamente escluso questa opzione in campagna elettorale, il che lascia la porta aperta a una hard Brexit il prossimo dicembre.

Inoltre, anche se l'Ue e il Regno Unito riusciranno a delineare un nuovo quadro per la cooperazione, da avviare dopo la fine della transizione (nel 2020 o 2022), è probabile che esso richieda adattamenti e adeguamenti continui. Questa è infatti l'esperienza di tutti gli altri paesi che, per peculiari ragioni storiche e politiche, sono al di fuori dell'Ue ma, per ovvi motivi geografici ed economici, sono strettamente collegati ad essa: dalla Svizzera, agli Stati dello Spazio economico europeo, alle nazioni con un partenariato d’associazione dell'Europa orientale.

Mentre la prima fase della Brexit sta per concludersi, molto resta ancora da fare per pensare a come mantenere il Regno Unito collegato all’Europa. È quindi giunto il momento anche per l'Ue di presentare nuove idee su questo fronte. Il mese scorso, il Consiglio europeo si è spaccato e si è bloccato quando ha preso in considerazione l'opportunità di aprire i colloqui per l’adesione con la Macedonia del Nord e l'Albania (e anche nella riunione del Consiglio europeo di ieri i capi di Stato e di governo si sono divisi su come affrontare i cambiamenti climatici). Ma sicuramente ci dovranno essere altre opzioni possibili tra piena adesione all’Ue e nessuna adesione, comprese forme di adesione associative. E il futuro del Regno Unito al di fuori dell'Ue rende la riflessione su questi punti più urgente che mai.

Mentre l'Ue intraprende un auspicato processo di riflessione con la “Conferenza sul futuro dell'Europa”, che dovrebbe essere varata all'inizio del 2020, le questioni relative alle riforme istituzionali e a quali connessioni di governance stabilire con Stati che gravitano al di fuori del nucleo principale dell'Ue dovrebbero essere al centro dell’agenda dei temi da discutere e risolvere. La fine dell'inizio della vicenda Brexit apre un nuovo, inesplorato capitolo nel futuro dell'Europa.

*Direttore del DCU Brexit Institute (la versione originale è stata pubblicata nel sito del DCU Brexit Institute, che ringraziamo)

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