Alberto Majocchi
Commento n. 148 - 2 maggio 2019
La consapevolezza sempre più diffusa che occorre perseguire con determinazione l'obiettivo di ridurre le emissioni climalteranti deve accompagnarsi al riconoscimento dell’urgenza di individuare gli strumenti necessari per conseguirlo. Nell’Economists’ Statement on Carbon Dividends, sottoscritto da 27 Premi Nobel per l’economia americani, si afferma con chiarezza che la carbon tax rappresenta lo strumento più efficiente per ridurre le emissioni di anidride carbonica, chiarendo tuttavia che non si tratta di imporre un nuovo prelievo, bensì di correggere un fallimento del mercato, attraverso un segnale di prezzo per indirizzare il comportamento di produttori e consumatori nella direzione di un’economia carbon free.
In questa prospettiva, sembra opportuno riprendere l’intuizione del Presidente della Commissione Jacques Delors che aveva elaborato una strategia unilaterale dell’Europa per contenere le emissioni di CO2, fondata in particolare sull’approvazione di una Direttiva che introduceva una carbon/energy tax pari a 10 dollari per barile di petrolio, ma riciclandone il gettito attraverso una riduzione dei contributi sociali a carico delle imprese e dei lavoratori per stimolare l’economia, con un doppio dividendo, in termini di miglioramento della qualità ambientale e di nuova occupazione. L’idea di Delors era, inoltre, che se l’Europa avesse aperto la strada, gli altri paesi l’avrebbero seguita, consentendo così di affrontare seriamente il problema del riscaldamento globale.
Oggi il 45% delle emissioni nell’Unione europea sono gestite con un meccanismo di controllo delle quantità nell’ambito dell’Emission Trading System (ETS). Nei settori al di fuori di questo meccanismo – trasporti, settore domestico, PMI e agricoltura –, in cui origina il 55% delle emissioni totali, è indispensabile introdurre un prezzo per il carbonio, accompagnato dall’imposizione di un diritto compensativo alla frontiera sulle importazioni provenienti dai paesi che non adottino un sistema di carbon pricing, in misura pari al prezzo imposto sulla produzione europea, per evitare un’incompatibilità con le regole del WTO. Questo obiettivo è stato riaffermato dal Presidente Macron nella sua conferenza stampa del 25 aprile 2019.
Il punto da sottolineare è che l’imposizione di un prezzo sul carbonio non deve essere utilizzato al fine di procurare un gettito addizionale, bensì per avviare una profonda riforma della struttura della finanza pubblica, sia dal lato delle entrate che da quello della spesa, nella direzione di un’economia carbon free e socialmente equa. In sostanza, tutte le entrate dovranno essere riciclate nel sistema economico attraverso o sgravi sul prelievo sulle famiglie a basso reddito o riduzioni dei contributi sociali, per favorire le imprese non energivore con una riduzione del costo del lavoro e i lavoratori con un aumento del salario netto (a parità di reddito lordo), mentre la spesa dovrà essere indirizzata a sostenere gli investimenti necessari per promuovere la transizione ecologica.
Le dimensioni di questa potenziale riforma fiscale sono significative. Con un prezzo sul carbonio che cresce ogni anno di €10, da un valore iniziale di €50, fino a raggiungere €100 per tonnellata/CO2, le entrate ammonterebbero a €112,5 miliardi per salire a regime a €225 miliardi, dato che le emissioni di CO2 nei settori non inclusi nell’ETS hanno raggiunto nel 2017 i 2.242,65 milioni di tonnellate nell’UE27 (dato Eurostat). Anche il prezzo delle quote nei settori inclusi nell’ETS, che progressivamente verranno vendute all’asta, tenderà a crescere in quanto verranno emesse in numero sempre più limitato, con ulteriori entrate aggiuntive. Infine, occorre considerare anche le entrate derivanti dall’imposizione di un diritto compensativo alla frontiera. Eurostat stima per il 2017 emissioni legate ai consumi e agli investimenti interni all’UE – la carbon footprint – pari a 7,2 tonnellate pro capite, di cui 1,2 originate al di fuori dell’Unione. Le emissioni importate da tassare si possono quindi stimare pari a 525,1 milioni di tonnellate, con un gettito di €26,2 miliardi (€52,5 miliardi nel 2025, con un’aliquota a €100), che affluirebbe direttamente al bilancio europeo, in quanto si tratta di una risorsa propria dell’Unione.
Questi dati non implicano necessariamente un gettito addizionale per la finanza pubblica. In alcuni paesi, ad esempio in Svezia dove l’aliquota della carbon tax è fissata a 114 euro, è prevedibile che non vi siano variazioni nel livello del prelievo. In altri paesi, come l’Italia, dove è già elevata la tassazione dell’energia, si potrà procedere a una rimodulazione della struttura del prelievo gravando su ciascuna fonte in misura proporzionale al contenuto di carbonio. Il punto da sottolineare è che, in ogni caso, le entrate totali derivanti dall’imposizione di un prezzo sul carbonio nei settori non-ETS e dalla vendita all’asta delle quote nei settori ETS rappresenteranno un differenziale di prezzo fra l’utilizzo di combustibili fossili e di energie rinnovabili, configurando l’ammontare del carbon dividend utilizzabile per la transizione ecologica, socialmente equa, dell’economia europea.
Questo carbon dividend consentirà una profonda rimodulazione del sistema fiscale destinata a spostare l’onere della tassazione dal lavoro e dai redditi d’impresa verso l’uso di combustibili fossili. Le entrate derivanti dall'imposizione di un prezzo sul carbonio andranno in parte attribuite al livello nazionale per promuovere misure dirette a favorire l’occupazione e contrastare i livelli di povertà, abbassando le imposte sul lavoro, in particolare, sui redditi più bassi e riducendo i contributi sociali su imprese e lavoratori. Una parte delle entrate, e in particolare il gettito dei diritti riscossi alla frontiera, dovrà affluire direttamente al bilancio dell’Unione, per promuovere gli investimenti destinati allo sviluppo tecnologico dell’economia europea e per finanziare un Fondo Europeo per la Disoccupazione, complementare rispetto ai Fondi nazionali esistenti, che avrebbe, oltre a evidenti finalità sociali, effetti positivi dal punto di vista di una politica anticiclica, consentendo ai paesi in difficoltà di ricevere aiuti direttamente dall’Europa.
Ma la quota più rilevante delle risorse attribuite al bilancio europeo dovrà essere destinata a finanziare un Piano europeo di sviluppo sostenibile, in particolare per garantire una transizione ecologica che sia in grado di promuovere la ricerca e l’innovazione e, al contempo, l’equità sociale. In un recente intervento (It’s Time for a Green EU Deal), Michel Barnier lancia la proposta di un Sustainability Pact, ricordando che la Commissione europea stima che siano necessari ogni anno 180 miliardi di euro per soddisfare gli impegni assunti dall’Unione con gli Accordi di Parigi del dicembre 2015. Per raggiungere questo obiettivo il ruolo delle istituzioni finanziarie nell’orientare il settore privato verso investimenti a basse emissioni è fondamentale e la disponibilità di risorse garantite dall’imposizione di un prezzo sul carbonio potrà anche favorire l’emissione di titoli verdi destinati alla realizzazione del Piano.
Questa destinazione delle risorse sottolinea con chiarezza che l’imposizione di un prezzo sul carbonio e di un diritto compensativo alla frontiera hanno finalità che vanno al di là dello spazio dell’Unione. L’avvio di un Piano europeo di sviluppo sostenibile garantisce infatti che l'utilizzo del gettito venga destinato a promuovere un Green New Deal, con l’obiettivo prioritario di sostenere una politica di sviluppo delle fonti di energia rinnovabile, che dovrà coinvolgere non soltanto l'Europa, ma anche altre aree del mondo, e in particolare il continente africano.
*Professore Emerito di Scienza delle Finanze all’Università di Pavia, Vice Presidente del Centro Studi sul Federalismo (a fine 2018 ha pubblicato European budget and sustainable growth - The role of a carbon tax - Peter Lang)