Alberto Majocchi
Commento n. 136 - 25 ottobre 2018
In vista della Climate Change Conference, che si terrà in dicembre a Katowice, l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha approvato, il 6 ottobre scorso, un rapporto speciale su Global Warming of 1.5°C, in cui si sottolineano gli effetti negativi già manifestatisi a seguito dell’aumento di 1°C della temperatura del pianeta, con eventi meteorologici estremi, livelli crescenti del mare, restringimento dei ghiacciai artici. Ma il rapporto sottolinea soprattutto che “limitare il riscaldamento globale a 1,5°C richiederebbe cambiamenti rapidi e di vasta portata per quanto riguarda l’utilizzo del suolo, l’energia, l’industria, gli edifici, i trasporti e le città. Entro il 2030 le emissioni globali nette di anidride carbonica (CO2) causate dall’uomo dovrebbero diminuire del 45% rispetto ai livelli del 2010, per raggiungere quota zero nel 2050. Ciò significa che tutte le emissioni residue dovrebbero essere compensate eliminando la CO2 dall’aria.” [traduzione nostra]. Si tratta di un avvertimento serio che proviene da scienziati di tutto il mondo e che mette l’accento sul fatto che l’obiettivo dell’Accordo di Parigi, che prevedeva di contenere l’incremento nella temperatura media globale al di sotto di 2°C, deve essere rafforzato, con l’utilizzo di strumenti più incisivi rispetto a quelli finora messi in campo.
Quasi contemporaneamente, l’8 ottobre la Royal Swedish Academy of Sciences annunciava l’attribuzione del Premio Nobel per l’Economia 2018 al prof. William D. Nordhaus della Yale University “per avere integrato i cambiamenti climatici nelle analisi macroeconomiche a lungo termine”. Nella motivazione del premio si ricorda che “secondo la ricerca di Nordhaus, il rimedio più efficace contro i problemi causati dalle emissioni dei gas serra sarebbe uno schema globale di carbon tax applicate uniformemente in tutti i paesi. Altrettanto valido potrebbe essere un sistema per lo scambio delle quote di emissione, a condizione che i limiti alle emissioni siano sufficientemente bassi da determinare un prezzo sufficientemente elevato per il carbonio” [idem]. Accanto all’obiettivo di un contenimento radicale delle emissioni di CO2, nei lavori di Nordhaus vengono quindi indicati gli strumenti da impiegare per affrontare il problema del riscaldamento globale: uno strumento di prezzo – la carbon tax – o uno strumento di quantità – i permessi negoziabili di inquinamento.
I due fatti evidenziano la drammaticità delle scelte da compiere per salvaguardare il futuro dell’umanità e la necessità di utilizzare strumenti adeguati per raggiungere l’obiettivo di una riduzione delle emissioni e di un contenimento del riscaldamento globale. Il problema che rimane aperto, e che certo non sarà risolto a Katowice, è di tradurre queste indicazioni in scelte politiche coerenti. È nota la posizione americana che rifiuta di attribuire a fattori antropici la causa dei cambiamenti climatici e l’opposizione di molti paesi, in particolare di quelli industrialmente emergenti, a misure restrittive sui consumi di energia fossile. Sembra quindi opportuno rifarsi alla scelta del Presidente della Commissione europea Jacques Delors che, in vista della UN Conference on Environment and Development, a Rio, nel giugno 1992, aveva elaborato una strategia unilaterale dell’Europa per contenere le emissioni di CO2, fondata sull’approvazione di una Direttiva che introducesse una carbon/energy tax pari a 10 dollari per barile di petrolio (con un prezzo del petrolio che, all’epoca, oscillava intorno ai 20 dollari), riciclando il gettito per stimolare l’economia attraverso una riduzione dei contributi sociali a carico delle imprese e dei lavoratori, generando così un doppio dividendo, in termini di miglioramento della qualità ambientale e di nuova occupazione. L’idea di Delors era, inoltre, che se l’Europa avesse aperto la strada, gli altri paesi l’avrebbero seguita, consentendo così di affrontare seriamente il problema del riscaldamento globale.
Quella proposta di Direttiva non fu approvata e oggi l’Unione europea gestisce il 45% circa delle emissioni (11.000 imprese impegnate nella produzione di energia elettrica e in altri settori fortemente energivori) con uno strumento di quantità – l’Emission Trading System (ETS) – e con discreti risultati, ma resta esclusa una larga quota di emissioni legate al trasporto, all’edilizia, all’agricoltura e alla produzione delle piccole e medie imprese. Se si vogliono raggiungere gli obiettivi indicati dall’IPCC occorre introdurre, a complemento dell’ETS, una carbon tax sul consumo dei combustibili fossili, accompagnata dall’imposizione di un diritto compensativo alla frontiera pari all’aliquota imposta sulla produzione europea, che gravi sulle merci provenienti da paesi che non impongano un prezzo analogo sul carbonio, per evitare sia una perdita di competitività dell’industria europea, sia, e soprattutto, fenomeni di emigrazione delle produzioni per ragioni fiscali – i c.d. carbon leakages –, che potrebbero addirittura portare a un peggioramento delle condizioni ambientali in quanto la produzione verrebbe delocalizzata dall’Europa verso paesi con vincoli ambientali meno rigidi.
Dopo anni di silenzio, l’idea di imporre un carbon pricing è stata ripresa dal Presidente Macron nel famoso discorso a La Sorbonne di Parigi. L’idea incomincia a farsi strada sia nel dibattito culturale sia a livello politico. In un recente intervento (sulla rivista Formiche) il Presidente della Compagnia di San Paolo, Francesco Profumo, lega opportunamente la necessità di introdurre una carbon tax alla creazione di risorse proprie adeguate per finanziare il bilancio dell’Unione. La creazione di un’autonoma capacità fiscale di Bruxelles per avviare politiche di investimento che aiutino la crescita dal versante della domanda è stata solennemente riaffermata dal Presidente Macron e dalla Cancelliera Merkel nella Dichiarazione di Meseberg del 19 giugno scorso.
Il tema del bilancio europeo sarà al centro del dibattito in vista delle elezioni europee del maggio 2019 e rappresenterà il punto focale dello scontro fra le forze politiche sovraniste, che auspicano un ritorno a velleitarie politiche nazionali, anche violando le regole europee, così come proposto dal governo italiano, e forze politiche genuinamente europeiste, che non si limitano a chiedere il rispetto di quelle regole, ma si impegnano a un rafforzamento – in vista dell’approvazione del Quadro Finanziario Pluriennale – delle dimensioni del bilancio europeo, per far fronte alle molteplici esigenze cui l’Europa deve dare una risposta in termini nuovi, in materia di sicurezza interna e esterna, risanamento ambientale, innovazione e nuove tecnologie, occupazione per la forza lavoro esclusa dal processo produttivo a fronte del processo di globalizzazione e nuove forme di welfare multilivello che garantiscano a tutti i cittadini un livello di vita decoroso.
La scelta decisiva da porre al centro del dibattito politico rimane la carbon tax, anche per la consistenza del gettito che è in grado di fornire. Con un’aliquota iniziale fra 25 e 30 euro per tCO2 il gettito oscillerebbe fra i 75 e i 90 miliardi di euro; se l’aliquota dovesse raggiungere nel medio periodo €50 per tCO2, come stimato necessario dai più autorevoli studiosi di climate change, il gettito salirebbe a 150 miliardi di euro. Queste risorse dovrebbero essere: in parte, redistribuite a livello nazionale per favorire l’occupazione e ridurre la povertà, abbassando le imposte sul lavoro, in particolare sui redditi più bassi; in parte attribuite al bilancio europeo per quanto riguarda i diritti compensativi sulle importazioni – che fanno parte delle risorse proprie tradizionali –; in parte destinate a una Agenzia Europea dell’Energia e dell’Ambiente, per promuovere le energie rinnovabili e combattere il riscaldamento globale. L’Europa potrebbe così assumere di nuovo un ruolo di avanguardia, come ipotizzato da Delors nel 1992, e contrastare con efficacia le posizioni sovraniste grazie a una politica attiva per una crescita sostenibile e per l’occupazione.
* Professore Emerito di Scienza delle Finanze all’Università di Pavia, Vice Presidente del Centro Studi sul Federalismo