COP 24 sul clima: i rinvii consumano tempo e futuro

Roberto Palea
Commento n. 139 - 7 gennaio 2019  

La ventiquattresima Conferenza delle Parti (COP24) è stata convocata a Katowice, in Polonia, con il compito di stabilire come applicare gli impegni assunti a Parigi nel 2015 dai 195 Paesi firmatari, come allineare i Piani Nazionali sul clima (Intended Nationally Determined Contribution - INDC) entro il 2020 all’obiettivo di mantenere l’incremento medio della temperatura terrestre ben al disotto dei +2°C, rispetto all’era preindustriale, nonché come ripartire tra gli Stati industrializzati il finanziamento del Green Climate Fund, istituito a Cancun, fin dal 2010, ma rimasto sulla carta.

Secondo il Segretario dell’ONU, Antonio Guterres, “il mondo è ancora totalmente fuori rotta”. In realtà, dall’Accordo di Parigi del 2015 la congiuntura politica e la situazione ambientale del Pianeta sono drammaticamente peggiorate. Donald Trump, Presidente del Paese responsabile del 15% delle emissioni globali di gas a effetto serra, ha confermato l’intenzione degli Stati Uniti di “uscire” dall’Accordo di Parigi, non appena ciò diverrà giuridicamente possibile (dopo tre anni dalla sua entrata in vigore, e quindi dopo il 2019).

L’intenzione degli Stati Uniti, nonostante l’opposizione interna (la California e altri Stati hanno deciso di continuare ad applicare l’Accordo di Parigi), ha stimolato un effetto emulativo, rafforzando il disimpegno di quegli Stati che ritengono loro compito primario difendere interessi nazionali di breve periodo (il Brasile di Jair Bolsonaro, gli Stati ricchi di miniere di carbone e di giacimenti di gas e l’Australia).

Gli autorevoli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), in un loro rapporto speciale, pubblicato l’8 ottobre 2018, hanno affermato che, stante l’evoluzione del clima nell’ultimo decennio e le sue accertate conseguenze, è necessario limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, anziché a 2°C o più, per evitare conseguenze irreparabili; rimangono soltanto 12 anni per raggiungere la stabilizzazione del clima entro il limite del 1,5°C, altrimenti la situazione tenderà a diventare irreversibile e fuori controllo. L’IPCC afferma, pertanto, che per limitare l’aumento della temperatura dall’era preindustriale entro il limite di 1,5°C, è necessario ridurre le emissioni globali di gas a effetto serra del 45% entro il 2030.

Inoltre, dopo tre anni di calo, dal 2014 al 2016, le emissioni di gas a effetto serra hanno ripreso a crescere. L’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) ha stimato un incremento delle emissioni globali del 1,4% nel 2017 e un’ulteriore, più elevata crescita nel 2018, quale conseguenza della crescita del consumo di petrolio nel Mondo ed ancor più del gas, soprattutto in Cina. Mentre, sempre secondo l’IEA, le emissioni avrebbero dovuto e dovrebbero ridursi almeno del 1% all’anno fino al 2025, per essere allineate alla traiettoria dell’Accordo di Parigi.

In questo quadro di difficoltà, tra spinte verso obiettivi più ambiziosi e minacce di cancellare gli Accordi sottoscritti, le conclusioni della COP24 di Katowice hanno privilegiato gli egoismi dei singoli Paesi. E’ stata, ancora una volta, accantonata la necessità di affrontare insieme l’emergenza climatica, tramite istituzioni sopranazionali, adeguatamente finanziate.

Per evitare un clamoroso insuccesso diplomatico si è fatto ricorso alla collaudata arma del rinvio. Poiché l’Accordo di Parigi dovrebbe diventare operativo nel 2020, la Conferenza di Katowice ha raggiunto un’intesa su un sistema unitario di misurazione e contabilizzazione delle emissioni di gas a effetto serra e degli INDC, approvando un “Libro delle regole” (Rulebook), da applicare senza alcuna distinzione tra Paesi sviluppati ed in via di sviluppo. Non è andato, viceversa, in porto il tentativo di chiarire a chi spetta e con quale ripartizione, tenuto conto delle responsabilità storiche dei Paesi industrializzati nella concentrazione di CO2 nell’atmosfera, il finanziamento di almeno 100 miliardi di dollari all’anno, decisa a Parigi, del già citato Green Climate Fund.

Rimane da segnalare, con favore, la crescente mobilitazione dei cittadini (soprattutto giovani), che, in ogni angolo del Pianeta, tramite manifestazioni di piazza e cortei, chiedono una forte azione globale in grado di fronteggiare la crisi climatica che stiamo vivendo.

Nonché la costituzione, a Katowice, di un’Alleanza degli Ambiziosi (High Ambition Coalition – cui aderisce l’Italia), che si è impegnata ad aumentare, entro il 2020, gli obiettivi di riduzione delle emissioni sottoscritti a Parigi. A tal proposito molti Paesi europei ed il Parlamento Europeo (nella seduta plenaria del 25 ottobre 2018), in coerenza con la soglia critica di 1,5°C, hanno proposto di rivedere l’obiettivo al 2030, pari a oltre il 55% di riduzione delle emissioni, in modo da costituire un forte traino per gli altri Paesi.

Tenendo conto delle ripetute, anche se generiche, dichiarazioni di disponibilità della Commissione Europea, si può sperare che l’Unione Europea voglia mantenere il suo ruolo di leadership nella lotta ai cambiamenti climatici, coinvolgendo, in tal senso, il Consiglio Europeo.

L’UE dovrebbe dar vita a un’Agenzia per l’Ambiente e l’Energia, costituita secondo il modello della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) del 1951, dotata di poteri sovranazionali e mezzi finanziari adeguati. Con ampia autonomia e sotto una regia unitaria, sarebbe possibile attuare efficaci politiche attive per ridurre le emissioni inquinanti, sviluppare le energie rinnovabili per raggiungere l’autosufficienza energetica dell’Unione. E sarebbe, nel contempo, possibile promuovere partnership con i Paesi e le imprese africani, dirette a sviluppare le infrastrutture energetiche in tali Paesi, solarmente ricchi, per promuoverne lo sviluppo economico endogeno. Per questa via si otterrebbe pure un contenimento delle spinte migratorie, radicando la popolazione sul proprio territorio.

La proposta Agenzia per l’Ambiente e l’Energia potrebbe finanziare la propria attività attraverso l’imposizione di una carbon tax a livello europeo (percepita alla frontiera dell’UE sulle importazioni di merci e prodotti) e a livello nazionale. La carbon tax nazionale, applicata con identici criteri da tutti gli Stati dell’UE, servirebbe a ridurre l’imposizione sui redditi d’impresa e da lavoro (riducendo il cuneo fiscale) e ad erogare dagli Stati nazionali all’Agenzia (peraltro autorizzata a indebitarsi sul mercato) cospicui contributi di finanziamento dell’attività comune. L’UE rappresenterebbe così un esempio e un modello per il mondo intero.

Rimane una variabile da considerare: quella del tempo a disposizione per evitare la catastrofe climatica globale, tempo che continua ad esaurirsi. Riuscirà l’Umanità a rendersi conto che siamo in grave ritardo e che dobbiamo agire subito, sottraendoci alla logica miope e perversa degli Stati nazionali?

* Membro del Consiglio Direttivo e già Presidente del Centro Studi sul Federalismo

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