Roberto Palea
Commento n. 255 - 11 gennaio 2023
La COP27 di Sharm el-Sheikh si è chiusa, il 20 novembre scorso, con un fallimento sulla riduzione delle emissioni di gas climalteranti nell’atmosfera e della dipendenza dai combustibili fossili. Negli anni dell’acme della pandemia causata dal virus Sars-CoV2, a seguito del rallentamento dell’attività produttiva e della riduzione dei trasporti e della mobilità urbana, le emissioni di CO2 si erano stabilizzate. Non appena l’attività economica è ripartita, le emissioni hanno ripreso a correre; una corsa che si è aggravata per effetto delle crisi energetica conseguente all’invasione russa dell’Ucraina.
Nell’Accordo sul clima di Parigi del 2015 (COP21), era stato assunto l’obiettivo di mantenere il clima ben al di sotto dei due gradi centigradi rispetto alla temperatura media dell’epoca preindustriale; limite precisato in 1,5 gradi nella COP26 di Glasgow, cui corrispondono immissioni di CO2 nell’atmosfera di 450 ppm (parti per milione). Allora (2015) l’aumento della temperatura del Pianeta rispetto all’epoca preindustriale era stato stimato in 0,9 gradi, cui corrispondono immissioni di CO2 di 400 ppm. Attualmente la World Meteorological Organization ha valutato la temperatura media del Pianeta in crescita a 1,15 gradi; il Programma europeo Copernicus per il 2022 ha aggiornato la stima delle immissioni di CO2 a 417 ppm. Si rischia, in pochi anni, di raggiungere quelle soglie di temperature e di immissioni considerate di rischio per la sopravvivenza stessa della vita dell’uomo sulla Terra.
D’altra parte, disastri ambientali ed eventi estremi sono sempre più frequenti su tutto il globo: incendi, alluvioni, desertificazione dei suoli, lunghi periodi di siccità alternati da piogge improvvise e devastanti. Eventi considerati non più episodici e straordinari, bensì dovuti a modificazioni strutturali del clima – di fronte alle recenti bufere di neve e di vento negli Stati Uniti, gli scienziati hanno parlato di “vortice polare”, originato dal riscaldamento dell’Artico con una rapidità dello scioglimento dei ghiacci polari quattro volte più rapido di quanto fino ad oggi conosciuto.
È stato poi sostenuto, da alcuni commentatori, che il fallimento totale della COP27 sarebbe stato evitato grazie all’auspicato varo di un Loss and Damage Fund, finanziato dai Paesi ricchi a favore di quei Paesi che hanno subito le conseguenze dell’inquinamento (tra i quali si iscrive anche la Cina). In realtà, sul Fondo, di cui si parla fin dal 2007 (COP13 a Bali – accordo poi rinviato da una COP all’altra), a Sharm el-Sheikh non si è raggiunta alcuna decisione definitiva. Ancora una volta è stata rinviata, secondo prassi, alla COP28 che si terrà a Dubai nel 2023.
In questo quadro a tinte fosche, dobbiamo scongiurare ogni tentazione alla passività e all’indifferenza e affrontare con realismo e fiducia il futuro. Ma non si deve rinunciare – semmai solo dilazionare, in attesa di una congiuntura geopolitica più favorevole – alla proposta dei federalisti di un accordo globale che comprenda: la promozione di una World Environment Organization (WEO), gestita da una Alta Autorità indipendente (sul modello della CECA), nell’ambito dell’ONU, per contrastare il riscaldamento globale; una rivalutazione del ruolo della World Trade Organization (WTO), per negoziare l’introduzione di un adeguato carbon price e sostenere la proposta dell’OECD di una global minimum tax sull’attività delle imprese multinazionali; la decisione da parte della Banca Mondiale di emettere Green Bonus denominati in SDR (Diritti Speciali di Prelievo), in collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale.
Di fronte alla nuova situazione geopolitica internazionale, nel 2023 dobbiamo sostenere – oltre a tutti gli sforzi per un “cessate il fuoco” e una pace non effimera tra Russia e Ucraina – tutte le azioni per affrontare la crisi climatica, energetica ed alimentare. È chiaro che i due scenari rischiano di collidere: lo sforzo bellico in risposta all’aggressione russa e la ricostruzione dell’Ucraina distrutta comportano e comporteranno un enorme impegno finanziario per l’Occidente, che penalizzerà la disponibilità concreta a fronteggiare quella triplice crisi (climatica, energetica, alimentare).
In campo energetico, sarà necessario il coinvolgimento dell’Unione Africana per la produzione, nell’area subsahariana, di energia elettrica utilizzando le fonti fotovoltaica ed eolica, così da produrre in grande quantità, senza soluzione di continuità, elettricità pulita e a basso costo, il cui surplus rispetto alle esigenze locali può essere trasportato in Europa attraverso le condutture esistenti. Inoltre, l’energia elettrica solare ed eolica può essere convertita in idrogeno, con la tecnologia delle fuel cell, e trasportata in Europa, via Marocco, attraverso i condotti esistenti che collegano la Spagna al resto d’Europa. Con l’energia elettrica prodotta con le fonti alternative si potranno portare alla superficie le copiose risorse d’acqua esistenti nel sottosuolo africano, ovvero azionare centrali elettriche per la dissalazione dell’acqua marina. Grandi estensioni di terreno potrebbero essere irrigate e destinate all’agricoltura per sfamare le popolazioni africane. Le nuove tecnologie dell’agricoltura, coadiuvate dai moderni metodi e macchinari di coltivazione e trasporto, moltiplicherebbero la capacità produttiva dei terreni a vantaggio della collettività.
La crisi energetica deve poter portare a un’alternativa al gas naturale, attraverso una maggior efficientamento energetico e la transizione, soprattutto nei settori ad alta intensità energetica, a fonti pulite. Gli Stati Uniti hanno appena approvato l’Inflation Reduction Act (con massicci sussidi alle industrie locali per la transizione ecologica) e stanno sviluppando le proprie risorse energetiche per mettersi al sicuro dalla volatilità del gas e dalle tensioni energetiche globali. Molte industrie si stanno indirizzando verso la prossima generazione della tecnologia, tra cui le batterie al sodio o i pannelli solari a film sottili e non al silicio. E grandi produttori di acciaio stanno investendo per utilizzare l’idrogeno verde nell’industria siderurgica. La mobilità urbana ed extraurbana sarà basata su veicoli elettrici o a idrogeno, riprogettando le città “a misura d’uomo”.
La ricerca scientifica ha di recente riportato l’attenzione sulle prospettive della produzione di energia attraverso gli impianti nucleari a fusione, il cui orizzonte operativo però si misura ancora in decenni. Per altro verso, molti Stati dell’America Latina, Brasile compreso, stanno attuando piani ambiziosi per il salvataggio delle foreste pluviali e la valorizzazione del “polmone verde” dell’Amazzonia. Sviluppo tecnologico e salvaguardia ecologica devono procedere di pari passo: il trasferimento ai paesi meno dotati di risorse delle più moderne tecnologie può rappresentare un’arma di successo per migliorare le prospettive della vita dell’intero Pianeta.
*Già Presidente del Centro Studi sul Federalismo, membro dell’UAERE, Associazione europea degli economisti dell’Ambiente e delle risorse naturali