Domenico Moro
Commento n. 249 - 25 agosto 2022
La recente notizia secondo cui la Cina, l’India, la Bielorussia, la Mongolia, il Tajikistan e altri paesi parteciperanno alle esercitazioni militari Vostok 2022 in Russia, concorre a mantenere aperta la discussione su quale possa essere la strada da seguire per dar vita ad un nuovo ordine mondiale. Essa, in buona sostanza, ripropone i dubbi sulla conclamata posizione sostenuta dagli Stati Uniti, secondo cui la discriminante in base alla quale si configurerà il futuro delle relazioni mondiali sarà basata sul confronto tra paesi democratici e paesi autoritari. Infatti, alle esercitazioni Vostok 2022 saranno presenti, in base al criterio con il quale sono stati scelti i partecipanti al “Summit for Democracy” promosso da Biden nel dicembre 2021, paesi democratici (India, Mongolia) e paesi autoritari (Bielorussia, Cina, Russia, Tajikistan). Ma non è questo il solo fatto che mette in discussione il principio della contrapposizione tra paesi democratici ed autoritari.
Come alcuni hanno fatto notare, la lista dei partecipanti al “Summit for Democracy” si è basata più sugli interessi politici degli USA che su valutazioni più “oggettive” del rispetto dello Stato di diritto. Ad esempio, al Summit hanno partecipato il Presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, accusato di crimini contro l’umanità e sotto inchiesta del Tribunale Penale Internazionale (TPI) e paesi come l’Iraq, l’Angola, e la Repubblica Democratica del Congo che Freedom House valuta come meno rispettosi dello Stato di diritto dell’Ungheria, non invitata. Il Presidente del Sud Africa, Cyril Ramaphosa, da parte sua, ha declinato l’invito.
Un altro fatto significativo, sono state le votazioni che si sono succedute all’Assemblea generale dell’ONU a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. Se il 3 marzo si è avuto un voto quasi unanime (141 voti) contro l’aggressione, con solo cinque voti contro e 35 astensioni, tra cui Cina, India e Sud Africa, il 7 aprile, invece, la proposta di sospensione della Russia dal Consiglio per i diritti umani, presentata dagli USA, ha avuto 93 voti a favore, 24 contro, 58 astenuti (la Cina ha votato contro, mentre Brasile, India, Indonesia, Messico e Sud Africa si sono astenuti. L’India e l’Indonesia, per popolazione, sono il primo ed il secondo paese asiatico democratico).
Infine, il 23 e 24 giugno scorso si è tenuto il XIV Summit dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), un’associazione che, come si può vedere, riunisce paesi autoritari e democratici. Al termine del Summit è stata approvata una dichiarazione con cui viene ribadito (oltre ad un ipocrita sostegno ai valori della libertà, della democrazia e del rispetto dei diritti umani) il sostegno alle istituzioni multilaterali, in particolare alla WTO ed al FMI. Essa non contiene, invece, alcun riferimento alla proposta, sostenuta dalla Russia, di dar vita ad una valuta comune che si contrapponga al dollaro americano. Si può discutere se il sostegno alle istituzioni multilaterali sia dettato da ragioni di opportunità (certamente), piuttosto che da una convinta adesione al principio che esse rappresentano (opinabile), ma resta il fatto decisivo che non vengono messe in discussione.
Il fatto che in politica internazionale, dove prevale ancora la logica della politica di potenza, le alleanze vengano costruite in base ad interessi politici, piuttosto che in base a valori condivisi, è normale e la storia delle relazioni internazionali fornisce numerosi esempi. Nel corso del confronto con l’ex-URSS, gli USA non avevano esitato a stipulare alleanze con i regimi, non solo autoritari, bensì dittatoriali, di Grecia, Portogallo e Spagna, mentre in America Latina, per contrastare la diffusione del comunismo, avevano tollerato o sostenuto le dittature latinoamericane, anche accettando passivamente il rovesciamento dell’esito di elezioni democratiche.
Si sono voluti richiamare questi fatti perché si ritiene che mettano bene in luce che il vecchio ordine mondiale, fondato sulla sola supremazia americana, è sempre meno accettato e che, a fronte del compito di ridisegnarne uno nuovo, stanno emergendo due alternative: una è quella indicata da Biden che, dietro lo schermo dell’opposizione tra democrazie ed autocrazie intende, in realtà, perpetuare l’egemonia americana; l’altra è quella di accettare il fatto che stanno comparendo nuovi attori della politica mondiale che vogliono partecipare, su un piano di parità con gli Stati Uniti, al governo della crescente interdipendenza su scala mondiale e quindi alla costruzione di un nuovo ordine mondiale, più equilibrato e più pacifico.
La prima alternativa è una via senza uscita. Essa non corrisponde alla convergenza di interessi su punti di interesse comune, come il cambiamento climatico, la fornitura di beni pubblici globali come la sicurezza marittima, la prevenzione dei conflitti, soprattutto in Africa e delle pandemie globali, senza dimenticare la prevenzione di una catastrofe nucleare. Durante la Guerra fredda si confrontavano due continenti che, grosso modo, avevano la stessa popolazione; erano sistemi economici senza legami economico-industriali, e dal punto di vista industriale, tecnologico e militare la bilancia pendeva dalla parte degli USA. Oggi, il mondo è radicalmente cambiato. Vi sono nuovi attori che hanno una popolazione che è 4-5 volte quella americana ed il cui sistema industriale, tecnologico e militare compete con quello USA ed è interconnesso con quest’ultimo.
La seconda alternativa è l’unico punto su cui ci può essere una convergenza tra i diversi attori della politica mondiale ed è anche il solo che, sia pure nel lungo periodo, può consentire alle autocrazie di evolvere verso un sistema più democratico, come è avvenuto per i regimi di Spagna, Grecia e Portogallo. Il rafforzamento del ruolo delle istituzioni multilaterali - la più lungimirante eredità lasciataci dall’America rooseveltiana - è la discriminante su cui hanno attirato l’attenzione sia Joseph Stiglitz (“The only way forward is through true multilateralism, in which American exceptionalism is genuinely subordinated to common interests and values, international institutions, and a form of rule of law from which the US is not exempt”) e, più recentemente, Fareed Zakaria sul Washington Post (“A much better way to frame the division in the world is between countries that believe in a rules-based international order and those that don’t”). Ad oggi, però, gli USA fanno esattamente il contrario: chiedono l’intervento del TPI per i crimini russi in Ucraina, ma non hanno mai ratificato il trattato; protestano per le violazioni cinesi del Mar Cinese Meridionale, ma non hanno mai firmato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.
L’elezione di Trump alla presidenza ha messo in luce che la politica atlantica non è più una politica bipartisan, bensì oggetto di contesa politica. Gli USA, quindi, difficilmente potranno prendere la leadership di una politica mondiale volta a rafforzare le istituzioni multilaterali. Men che meno la potrà assumere uno dei paesi autoritari. L’unico attore che può svolgere un ruolo attivo in questo senso è l’UE, non solo perché il multilateralismo è la politica su cui concordano tutti i paesi europei, ma perché è l’area più aperta agli scambi mondiali e quindi ha un interesse oggettivo a rafforzare le istituzioni multilaterali. Certamente, però, l’UE deve anche essere un interlocutore credibile su scala mondiale e quindi dovrà fare passi avanti verso un’autonoma politica estera e di sicurezza.
*Domenico Moro è Membro del Consiglio Direttivo del Centro Studi sul Federalismo