Andrea Cofelice
Commento n. 192 - 1 ottobre 2020
Si sono da poco concluse a New York le celebrazioni per il 75° anniversario della fondazione delle Nazioni Unite: oltre 120 capi di Stato e di Governo hanno partecipato (prevalentemente da remoto o con messaggi preregistrati, a causa della recrudescenza del Covid-19) ad un evento di alto livello promosso dall’Assemblea generale per tracciare un bilancio dell’operato dell’Organizzazione e riaffermarne la centralità nel sistema delle relazioni internazionali.
Nei suoi 75 anni di storia, l’ONU ha esibito un notevole tasso di resilienza, riuscendo a sopravvivere alle crisi e ai mutamenti del sistema internazionale (sorte diversa toccò alla precedente Società delle Nazioni), senza tuttavia mostrare pari capacità di riformare il proprio sistema di governance, in sintonia con un mondo globalizzato e interdipendente. La struttura di potere interno, a cominciare dal diritto di veto dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, riflette ancora gli equilibri emersi alla fine della seconda guerra mondiale; alcuni organi hanno perso rilevanza, mentre altri, pur previsti dalla Carta, non hanno mai trovato attuazione; sul piano operativo, sono noti i problemi di duplicazione e ridondanza istituzionale, inerzia burocratica e cronico sottofinanziamento. Soprattutto, le Nazioni Unite non sono state in grado di assecondare il mutamento qualitativo del sistema internazionale: l’ONU continua ad essere un’organizzazione intergovernativa, mentre le attuali relazioni internazionali sono contrassegnate dalla presenza di nuovi centri di potere (le organizzazioni regionali) e dall’azione di attori privati (società civile, imprese multinazionali, società finanziarie) e di istituzioni pubbliche diverse dai governi (parlamenti, enti locali, organismi giurisdizionali).
I temi della legittimità, efficacia e rappresentatività/democraticità dell’ONU, sollevati già in occasione di precedenti anniversari, sono tutti ancora sul tavolo. Cosa c’è, dunque, di nuovo? Anzitutto il contesto: come ricordato dal Segretario generale Guterres, oggi viviamo in un’epoca caratterizzata da “un surplus di sfide multilaterali e un deficit di soluzioni multilaterali”. La pandemia di Covid-19 ha reso evidenti le fragilità dell’attuale sistema internazionale, ma l’elenco delle sfide è assai più lungo: crescenti tensioni geopolitiche; erosione dell’ordine liberale internazionale e dei valori democratici a livello interno (nel 2019, Freedom House ha registrato, per il 14° anno consecutivo, un declino del tasso di libertà e pluralismo a livello globale); aumento di conflitti armati, soprattutto civili; minacce sempre più complesse alla sicurezza umana; aumento di povertà e disuguaglianze; cambiamenti climatici e collasso della biodiversità; rischi di una nuova proliferazione nucleare.
L’urgenza di affrontare tali sfide con una visione rinnovata della cooperazione multilaterale, percepita anche a livello di opinione pubblica globale (si vedano due recenti ricerche condotte dal World Economic Forum e dal Pew Research Center), ha indotto gli Stati membri ad adottare, dopo mesi di negoziato, una Dichiarazione politica per rafforzare il ruolo dell’ONU nei processi decisionali globali. La dichiarazione, dopo averne ricordato i risultati (ma anche i fallimenti) nei suoi 75 anni di storia, individua 12 priorità per gli anni a venire. In alcuni casi si tratta di questioni che caratterizzano l’operato delle Nazioni Unite, ma su cui occorre serrare i ranghi: obiettivi di sviluppo sostenibile, uguaglianza di genere, cambiamenti climatici, riforma di Assemblea generale e Consiglio di sicurezza; a questi temi si aggiungono impegni nuovi, come la necessità di migliorare la cooperazione in ambito di pandemie, tecnologie digitali e intelligenza artificiale.
Tali impegni sono formulati in maniera sufficientemente ampia da aver consentito l’adozione della dichiarazione per consenso (dunque, anche con l’appoggio degli Stati Uniti, il che ha sorpreso non pochi osservatori). Allo stesso tempo (ed è forse il principale elemento di novità), è stato conferito al Segretario generale Guterres il mandato di formulare, entro settembre 2021, indicazioni e raccomandazioni sul modo in cui fare avanzare l’agenda comune. L’attuale Segretario generale ha già dato prova di saper coniugare visione e pragmatismo: a fronte dell’impraticabilità, nell’attuale fase, di un grand bargain sulla riforma degli organi politici – a causa dell’assenza pressoché totale di consenso tra gli Stati membri, in particolare sulla madre di tutte le riforme, quella del Consiglio di sicurezza –, negli ultimi due anni è riuscito a far approvare la riforma del sistema di sviluppo dell’ONU, nonché a mettere in cantiere la riorganizzazione del pilastro “pace e sicurezza” e del management dell’Organizzazione.
Il Segretario generale avrà bisogno di adeguato sostegno politico per realizzare questo sforzo progettuale, ma è improbabile che questo possa giungere dai membri più influenti del Consiglio di sicurezza: con le attuali leadership, il Consiglio appare come un ostacolo piuttosto che un promotore di riforme. Gli Stati Uniti, un tempo sostenitori e “architetti” del progetto delle Nazioni Unite, non solo si stanno ritirando dalle principali sedi multilaterali (UNESCO, OMS, Consiglio diritti umani), ma sembrano impegnati a destrutturare il sistema liberale di governance globale emerso nel secondo dopoguerra; il Regno Unito è assorbito dal complesso negoziato sull’uscita dall’UE; Russia e Cina, sfruttando il vuoto di potere, stanno tentando di riscrivere intere categorie di norme globali.
L’UE può cogliere l’occasione per affermare la propria leadership in questo processo di riforma. Non sembra certo mancarle la volontà politica: il sostegno al multilateralismo è un faro della sua politica estera, come ribadito nel recente Discorso sullo stato dell’Unione della Presidente von der Leyen, nonché nelle Conclusioni del Consiglio in cui sono definite le priorità dell’UE nel contesto della 75ª Assemblea generale delle Nazioni Unite. La sfida è individuare proposte e soluzioni praticabili per promuovere un cambiamento “fondato sulla progettualità, non sulla distruzione”.
Come formulare una risposta europea alla crisi del multilateralismo? Anticipando una Comunicazione della Commissione sul tema (attesa entro i primi mesi del 2021), l’Alto Rappresentante Josep Borrell in un recente dibattito pubblico ha prefigurato un’azione europea su tre livelli. In primo luogo: investire capitale politico e diplomatico in tutti i forum relativi ai diritti umani, per continuare ad affermare principi e norme universali di fronte ai tentativi, alimentati da argomentazioni strumentali sul rispetto della sovranità o di diversità culturali e politiche, di ristabilire un “relativismo dei diritti”. In secondo luogo: promuovere la formazione di coalizioni di Stati (e di attori regionali) con interessi e preferenze comuni in relazione alle modalità di organizzazione del sistema internazionale. Priorità andrebbe accordata a quegli attori che condividono con l’UE le preoccupazioni per la stabilità del sistema, minato dalle crescenti tensioni tra USA e Cina. Il recente lancio dell’Alleanza per il Multilateralismo, iniziativa franco-tedesca in sede ONU che ha ricevuto il supporto di tutta l’UE, è un primo passo in tale direzione. Infine: promuovere un multilateralismo funzionale e flessibile, con la possibilità di regimi normativi differenziati e alleanze a “geometrie variabili”, a seconda dell’ambito oggetto di regolamentazione (sul modello degli accordi plurilaterali in sede OMC).
L’UE è sempre stata una delle forze trainanti del multilateralismo: oggi è necessario perseguire tale impegno con maggiore unità, ambizione e senso di urgenza, ispirati dai valori elaborati 75 anni fa nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei diritti umani.
*Ricercatore al Centro Studi sul Federalismo (articolo pubblicato ieri da Europea, la piattaforma dei think tank su Euractiv.it)