Gabriele Casano e Carola Gritella
Commento n. 237 - 6 dicembre 2021
La riunione del G20 di Roma del 29-30 ottobre scorsi è stata l’occasione per tentare di avviare una riforma della governance globale, processo che si era già delineato durante il G7 di Carbis Bay dell’11-13 giugno 2021. Le priorità del summit sono state la definizione di strumenti e principi volti a garantire la stabilità del sistema economico finanziario, l'implementazione di politiche che permettano il superamento della crisi pandemica, il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs).
Da una parte, l’accordo sulla Tassa Minima Globale del 15 % sulle imprese appare come un successo quasi inaspettato. I paradisi fiscali potrebbero subire un forte contraccolpo e le distorsioni verrebbero mitigate lasciando spazio ad una più equa redistribuzione delle risorse finanziarie in quei paesi dove le imprese realizzano profitti senza contribuire alla spesa pubblica locale, generalmente perché registrate altrove.
Dall’altra, si è osservata un processo di presa di coscienza dell’estrema fragilità degli Stati meno sviluppati nel rispondere in maniera adeguata alla pandemia. Infatti, il G20 ha previsto la realizzazione di una G20 Joint Finance-Health Task Force. Quest’ultima si propone di rafforzare il dialogo e la cooperazione globale sulla strategia PPR (prevenzione, preparazione e risposta) di fronte alla pandemia. Occorre ricordare quanto la pandemia abbia avuto effetti distruttivi sulle supply chain che, in un mondo altamente interconnesso, sono la spina dorsale del commercio globale. Occorre altresì chiedersi se non sia necessario ripensare l’organizzazione delle attuali supply chain, in un’ottica di autonomia e riduzione della dipendenza dal contesto internazionale.
L’attenzione riservata al One Health Approach sembra assicurare un più solido approccio alla complessità delle prossime sfide globali, ma le grandi differenze su scala internazionale impongono una riflessione più ampia sull’estensione del diritto alla salute. Diritto che viene sovente minato dal protezionismo sui brevetti e dalla mancata attenzione per quegli operatori transnazionali che viaggiano costantemente e hanno subito restrizioni ingiustificate per mesi o che non hanno ricevuto sufficienti garanzie quando costretti a entrare in aree esposte al contagio.
La chiamata all’azione urgente posta dalla crisi climatica non ha prodotto risposte soddisfacenti al G20 e, purtroppo, ciò si è ripetuto anche nel corso della COP26 di Glasgow. Sono emerse, ancora una volta, le difficoltà croniche di incontri intergovernativi da cui non prendono forma atti e decisioni vincolanti per i partecipanti. Appare più che mai affermata la prassi internazionale secondo la quale solo un gruppo di “volenterosi” porta avanti politiche e strumenti ambiziosi, mentre una maggioranza rimane più cauta, si limita a sostenere posizioni che garantiscano i propri interessi e a non assumere impegni vincolanti, o persino si mobilita per ostacolare i progressi della comunità internazionale.
Nel complesso, gli strumenti messi in campo nell’ambito del G20 appaiono insufficienti e le ambiguità espresse da paesi come Russia, Cina, Turchia, Arabia Saudita e Brasile rischiano di compromettere l’effettiva realizzazione delle politiche annunciate. A rendere ancora più complicata questa situazione c’è quell’insieme di istituzioni multilaterali le cui decisioni il più delle volte riproducono rapporti di potere ineguali e fortemente discriminanti. Come non di rado accade nel caso dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) o del Fondo Monetario Internazionale (FMI).
Per quanto riguarda il G20, è stata di grande rilievo strategico la presenza dell’Unione Africana (UA) e dell’Unione Europea (UE). In particolare, l’Unione Africana sembra aver assunto il ruolo di partner preferenziale degli Stati europei e di interlocutore principale dell’UE sul continente africano. Il Summit UE-UA di febbraio 2022 stabilirà l’agenda per le relazioni future tra le due organizzazioni. Intanto, la sensibilità italiana sui rapporti con l’altra sponda del Mediterraneo ha permesso d’invitare l’Unione Africana a partecipare al G20. L’Italia riconosce nell’UA un attore imprescindibile per gestire il Mediterraneo allargato e per stabilizzare la zona che dal Nord Africa scende fino al Corno d’Africa e al Golfo di Guinea, che sono le aree più interessanti per la sicurezza Euro-Africana.
La partecipazione dell’Unione Africana al G20 ha dato spazio alle problematiche del continente e ha permesso di affermare il ruolo strategico dell’Africa per gli interessi dell’Europa, in particolare, e del mondo nel suo complesso. Il G20 ha rinnovato il suo impegno nei confronti dei paesi africani sottolineando il ruolo strategico e determinante delle iniziative già messe in campo quali: the G20 Initiative on Supporting Industrialization in Africa and LDCs e la G20 Africa Partnership and the Compact with Africa. L’UA ne è uscita rafforzata quale rappresentante delle istanze del continente africano a livello internazionale. Una partecipazione permanente dell’Unione Africana al G20 (di fatto un G21) darebbe una rappresentanza – come sottolineato da Jeffrey Sachs – a 1,4 miliardi di persone. Ma non risolverebbe i problemi di uno schema che rimane intergovernativo.
Sul tema della nuova allocazione di SDR, equivalente a 650 miliardi di dollari, decisa dal FMI, e della loro eventuale riallocazione per iniziative sul territorio africano, la linea ribadita è quella che prevede decisioni su base volontaria all’interno degli strumenti del FMI già operativi (Poverty Reduction and Growth Trust) o in fase di definizione, come il Resilience and Sustainability Trust. L’utilizzo di questi meccanismi, seppur di rilievo, non appare ancora sufficiente per una piena realizzazione dello sviluppo del continente africano e un superamento degli impatti della crisi pandemica.
La G20 Rome Leaders’ Declaration sottolinea (tra le righe) la disfunzionalità di un sistema di governance internazionale ancora dipendente da un approccio fondato sulla buona volontà di alcuni paesi. Le conseguenze della pandemia e i suoi risvolti politico-economici, in un contesto di interdipendenza, obbligano gli Stati e le Istituzioni Internazionali a confrontarsi con una realtà che necessita di una governance internazionale multilaterale rafforzata e fortemente inclusiva. Una nota positiva è data dall’interesse dimostrato per settori che classicamente erano di competenza del governo nazionale, come la tassazione o i servizi per la salute, che potrebbero suggerire un approccio meno intergovernativo e più integrativo, spingendo verso approcci di natura federale, sulla base di macroaree regionali, di cui Unione Europea e Unione Africana possono costituire un esempio e un’avanguardia.
*Gabriele Casano è Dottore in Area&Global Studies for International Cooperation all’Università degli Studi di Torino, Carola Gritella è Dottoressa in Global Law and Transnational Legal Studies all’Università degli Studi di Torino