Alfonso Iozzo e Domenico Moro
Commento n. 225 - 2 agosto 2021
La presidenza (semestrale) slovena del Consiglio dell’Unione europea ha riportato in primo piano il problema dell’allargamento ai Balcani occidentali e, di conseguenza, quello della compatibilità tra i valori professati, in generale, dai paesi dell’Est europeo e quelli dell’UE. Alcuni commentatori si sono spinti a sostenere che in assenza di una convinta adesione ai valori dell’UE, questa dovrebbe rifiutarsi di accoglierli (S. Fabbrini, La UE accolga solo Stati con gli stessi valori democratici, Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2021). Se è vero che il problema esiste e che, quindi, è necessario porselo, non sembra così scontato che la risposta debba essere la loro esclusione, per una serie di ragioni.
La prima di queste – e ammesso che la storia ci insegni qualcosa –, è che tra la proclamazione di principi e la loro effettiva realizzazione, spesso, intercorre un lungo periodo di tempo. Da quando Thomas Jefferson, nella Dichiarazione di indipendenza americana, scrive, assieme ad altri, “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness”, dovranno trascorrere circa 200 anni prima che, negli Stati Uniti, fossero riconosciuti alle popolazioni di colore i loro diritti politici e civili. Può darsi che questo sia un caso limite, ma non si può che prendere atto che ci si è trovati di fronte ad un processo molto lungo.
Qualche tempo fa, Emma Bonino nel corso di un convegno organizzato dal Movimento Europeo ha ricordato che senza l’allargamento all’Europa centro-orientale, in quei paesi sarebbe potuto succedere di tutto e quanto è avvenuto a seguito del crollo della ex-Jugoslavia sembra dimostrarlo. Certamente, Polonia e Ungheria vìolano lo Stato di diritto, ma siamo sicuri che senza il loro ingresso nell’UE, la loro situazione politica sarebbe migliore? L’Italia agricola degli anni ’50 e paese fondatore, era molto diversa dalla Polonia di oggi?
Non possiamo dimenticare che la politica inclusiva fornita dalla prospettiva dell’allargamento dell’UE ha consentito, a suo tempo, l’instaurazione della democrazia in Spagna, Grecia e Portogallo. In sostanza, l’alternativa è tra il ricorso (senza successo) al diritto della forza (come è successo in Iraq, Afghanistan e Libia), oppure alla forza del diritto, introdotto con pazienza e opportune politiche. Per dirla con le parole dell’allora Presidente delle Commissione europea, Romano Prodi, di fronte al Parlamento europeo (13 ottobre 2004): “il negoziato e il dialogo, anche se a volte difficili, complicati e dettagliati, sono l’unico modo democratico di esportare democrazia e stabilità”.
In concreto, come si può oggi procedere a fronte della domanda di adesione all’UE da parte dei paesi dei Balcani occidentali? Intanto occorre riconoscere che l’UE, nonostante gli ancora troppo deboli poteri in materia di politica estera e di sicurezza, attraverso la politica dell’allargamento ha fatto “politica estera”, in quanto ha stabilizzato l’intera area dei paesi che hanno aderito. In secondo luogo, che il problema della stabilizzazione oggi riguarda i Balcani, teatro di sempre più evidenti interessi geostrategici da parte di Cina, Russia e Turchia.
Una soluzione che il Centro Studi sul Federalismo di Torino sta studiando riguarda la possibilità che vi possa essere una fase transitoria tra la situazione attuale e quella di una successiva piena adesione all’UE e dei diritti ed obblighi che questo comporta. Si tratterebbe di una prospettiva che, per certi aspetti, si ispira a situazioni che si riscontrano nelle federazioni attuali, come quella canadese e quella americana.
La federazione canadese è composta da dieci Province e da tre Territori. Questi ultimi, anche se rappresentano lo 0,3% della popolazione canadese, costituiscono quasi il 40% della superfice della federazione. I Territori hanno meno poteri delle Province, ma rispetto alla popolazione sono sovra rappresentati, sia alla Camera che in Senato (circa il 3% di deputati e senatori). Inoltre, la politica di bilancio federale trasferisce ai Territori più risorse fiscali di quante ne riceva. Per quanto riguarda, invece, l’esperienza federale americana, si può ricordare l’esempio di Portorico. Dal 1917, gli abitanti di Portorico sono cittadini americani e possono spostarsi liberamente nel territorio americano. Anche se Portorico ha un proprio governatore, il Capo di Stato di Portorico è il Presidente degli USA ed i cittadini portoricani partecipano alle primarie per la scelta del Presidente americano, ma non alle elezioni presidenziali. Essi non partecipano all’elezione dei rappresentanti al Congresso, ma possono inviare un loro delegato non-votante alla Camera dei Rappresentanti. Il bilancio di Portorico è finanziato da proprie imposte, ma i portoricani pagano anche alcune tasse federali americane e beneficiano, almeno in parte, di alcune politiche sociali degli USA, come la sicurezza sociale e l’assistenza sanitaria.
Quello su cui, con il riferimento a questi precedenti, si voleva attirare l’attenzione è il fatto che le federazioni consentono soluzioni flessibili, che permettono di conciliare l’inclusione, sia pure non completa, con un minimo di politiche comuni. Nel caso specifico dei Balcani si tratterà di trovare una soluzione transitoria alla piena adesione all’UE, che potrà assumere la forma di un’associazione “rafforzata” o di altra modalità prevista dai trattati e comunque accompagnata dall’impegno degli Stati aderenti a rispettare lo stato di diritto. Nella fase transitoria, l’associazione potrà prevedere, ad esempio, che i paesi dei Balcani occidentali nominino i propri rappresentanti al Parlamento europeo ed al Consiglio dei ministri, senza diritto di voto.
Tempo e condotte accorte avvicineranno politiche e comportamenti dei Balcani a quelle dell’UE. Qualunque sia la soluzione istituzionale che potrà essere scelta, vi è un punto solo che deve considerarsi irrinunciabile: quello della supremazia del diritto comunitario su quello nazionale.
*Alfonso Iozzo è Presidente del Centro Studi sul Federalismo; Domenico Moro è membro del Consiglio Direttivo e Coordinatore dell’Area Sicurezza e Difesa del Centro Studi sul Federalismo (articolo pubblicato in contemporanea con Euractiv.it e Eurobull)