Flavio Brugnoli
Commento n. 128 - 11 giugno 2018
La burrascosa riunione del G7 in Canada, con il plateale strappo finale da parte del Presidente Trump, ha consegnato al mondo l’immagine di un Occidente diviso, di una divaricazione sempre più larga fra gli Stati Uniti e gli alleati europei. Nel fine settimana canadese è arrivato a un passaggio cruciale il ridisegno in corso degli equilibri globali, che obbliga gli europei a interrogarsi su quali strategie e quali valori li debbano guidare nel nuovo e disordinato scenario mondiale. E che, soprattutto, li deve spingere a riaffermare le ragioni della loro unità ideale e di azione.
Fin dall’inizio della Presidenza Trump era percepibile che i danni maggiori sarebbero potuti venire dalla sua manifesta volontà di indebolire, se non proprio ignorare, le istituzioni multilaterali su cui si è costruito – grazie anche alla leadership americana – il sistema internazionale nel secondo dopoguerra. All’approccio basato su regole e rapporti cooperativi torna a contrapporsi un approccio incentrato su relazioni bilaterali, sui rapporti di forza.
Quella visione del mondo come un gioco a somma zero contiene, nel profondo, una sfida alla natura stessa del progetto europeo. L’unificazione europea nasce anche dall’idea che, di fronte ai guasti sanguinosi del nazionalismo, sia necessario e lungimirante – un gioco a somma positiva – condividere la sovranità. Ovvero affidarsi a forme di governo democratico multilivello, in cui la messa in comune di risorse e istituzioni disegna una “comunità di destino”.
Quel progetto è oggi sfidato dall’esterno dell’Ue ma anche dall’interno. Ci stiamo abituando all’idea di “democrazie illiberali” – “sconsiderata formula (…) inconsistente e insostenibile”, nelle chiare e nette parole del Presidente Mattarella. Si afferma, anche in Paesi a noi vicini, un’idea semplificata di democrazia, fondata solo sul voto di un “popolo” visto come omogeneo, svuotato della ricchezza e complessità di una società pluralista. E si mette in secondo piano l’altro pilastro della democrazia moderna, lo Stato di diritto, e con esso la separazione dei poteri, i diritti delle minoranze, la libertà d’informazione.
Le ragioni di questa involuzione sono numerose, legate anche a specificità storiche nazionali. Ma, al fondo, sono il sintomo di un attrito fra impotenza delle democrazie nazionali ed entità dei problemi globali. Di fronte alla scala delle sfide che ci pone la globalizzazione, c’è chi crede di poter rispondere chiudendosi nei confini nazionali, con l’illusione del “take back control” (di cui Brexit costituisce il caotico paradigma). L’altra via è quella del portare a compimento il progetto di costruzione e condivisione di una “sovranità europea”, con la consapevolezza dei passi ancora da compiere e la tenacia necessaria per compierli.
Abbiamo conosciuto fasi diverse della globalizzazione, nel corso di pochi decenni. Apertura e liberalizzazione commerciale e finanziaria hanno dapprima beneficiato sia i Paesi in via di sviluppo sia la crescita mondiale. Con lo scoppio della grande crisi – a partire dagli Stati Uniti – ne sono emersi i costi economici e sociali nei Paesi occidentali, per i “perdenti” della globalizzazione. E già si delinea una terza fase, con un nuovo ciclo di innovazione e automazione, che crea incertezze e paure, per il suo impatto sul lavoro come lo conosciamo oggi. L’effetto di questi fenomeni epocali è la crescita della interdipendenza mondiale, grazie anche alle reti “sociali” di comunicazione. Nel contempo, sono emersi nuovi giganti economici (a partire dalla Cina) e imprese globali (tutte “digitali”). Un quadro che diviene più complesso e diversificato, in cui l’Europa deve sapersi far guidare da una bussola comune, che le consenta di svolgere un ruolo da protagonista.
La risposta “America First” del Presidente Trump a quegli umori, rancori e paure non contribuirà a “Make America Great Again”, ma in compenso sta minando la credibilità internazionale sua e degli Stati Uniti. L’elenco degli strappi è lungo e noto, anche prima di quello al G7 in Québec: il ritorno al protezionismo – come se gli errori negli anni ‘30 del secolo scorso non avessero insegnato nulla –, l’utilizzo del dollaro quale strumento per riaffermare l’egemonia geopolitica americana, una visione unilateralista nel campo della difesa, un andamento erratico nei rapporti con la Russia, che scavalca gli alleati europei (attenti a bilanciare dialogo e fermezza con Mosca, dopo la crisi ucraina), lo sciagurato ritiro dall’accordo sul nucleare con l’Iran, la decisione “negazionista” di uscire dall’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico.
Cresce la consapevolezza che sono in gioco alcuni “beni pubblici globali”: commercio, moneta, sicurezza, ambiente. L’Europa deve sapersi attrezzare sia per fronteggiare l’impatto della globalizzazione sia per contribuire a governarla. In un mondo che va veloce – nel 2025 il 61% della popolazione vivrà in Asia, nell’Ue a 27 sarà il 5,5% – l’Ue rimane l’area economica più integrata del pianeta, con un terzo del suo reddito che dipende dagli scambi con l’estero, che dispone della seconda valuta a livello mondiale.
Lasciatasi alle spalle la fase più dura della crisi dell’Eurozona, l’Unione ha saputo compiere passi avanti importanti, ripensando come combinare apertura e protezione, opportunità e solidarietà – e molto del merito va alla Commissione Juncker, in alleanza con il Parlamento europeo. Da qui la nuova attenzione al “pilastro europeo dei diritti sociali”; il rafforzamento dell’agenda commerciale europea, bilanciando libero-scambismo e difesa degli interessi strategici, nel quadro delle regole della WTO; il pacchetto di misure per il rafforzamento dell’Eurozona; l’impegno per un’effettiva tassazione delle multinazionali digitali; l’affermazione della responsabilità dell’Ue per lo sviluppo dell’Africa e il governo delle migrazioni (su cui sono alcuni Stati nazionali che stanno tradendo decisioni e valori europei); il sostegno all’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico, nel quadro di una transizione alla green economy; l’impegno per rafforzare il pilastro europeo della difesa, con il varo della Cooperazione strutturata permanente (PESCO), fra 25 Paesi membri.
Ma per essere all’altezza delle proprie ambizioni, l’Ue deve dotarsi di risorse adeguate. È iniziato il confronto sul Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027, dopo la proposta della Commissione di portare il bilancio – malgrado la Brexit – all’1,11% del Pil dell’Ue. Ancora poco rispetto alle sfide cui siamo confrontati, ma importante perché individua nuovi “beni pubblici europei” (ricerca, sicurezza, difesa, migrazioni) verso cui indirizzare nuove risorse. E tra queste indica anche delle risorse proprie (tassa sulla plastica), fondamentali per far uscire gli Stati membri dalla logica miope dei “saldi netti”, che ignora il valore aggiunto del bilancio europeo. Altrettanto importante, pensando al pericolo costituito dalle “democrazie illiberali”, che la Commissione ipotizzi un rafforzamento del legame tra finanziamenti europei e rispetto dello Stato di diritto.
Sono questi i temi e le scelte che avranno un primo test nel Consiglio europeo di fine giugno, e che ci accompagneranno fino al decisivo appuntamento delle elezioni europee a fine maggio 2019. C’è da augurarsi che il nuovo governo italiano sappia davvero cancellare ogni ambiguità autolesionistica nella sua linea sull’euro e non cada nell’illusione velleitaria di pesare di più in Europa giocando di sponda a fianco di Trump o di Putin. Sarebbe una via sicura per aumentarne l’isolamento e indebolirne la credibilità. In un mondo confuso e disordinato, solo un leale e fattivo contributo a far funzionare meglio la bussola europea può dare un futuro all’Italia e all’Unione.
* Direttore del Centro Studi sul Federalismo