Lucio Levi
Commento n. 159 - 8 novembre 2019
Trent’anni fa, il 9 novembre 1989, la libertà ha celebrato una delle più splendide vittorie della storia. La caduta del muro di Berlino, il crollo dei regimi comunisti e lo smantellamento della cortina di ferro aprirono la strada alla fine della Guerra Fredda e all’unificazione della Germania Est con la Germania Ovest, e dellʼEuropa Orientale con lʼEuropa Occidentale.
La fine della Guerra Fredda fu salutata come l’inizio di una nuova era di pace. L’entusiasmo generato da quell’evento, portò, sulla scia di un celebre libro di Fukuyama, a interpretarlo come il raggiungimento di una condizione sociale stabile, basata sul consenso universale sui principi della democrazia liberale e del capitalismo, la fase stazionaria finale della storia umana, “la fine della storia” (Hegel). Era certamente un sogno ad occhi aperti ma è innegabile che siano stati compiuti progressi significativi nella direzione della cooperazione internazionale e della riduzione delle armi di distruzione di massa. Reagan e Gorbaciov convennero che la pace è la prima priorità del nostro tempo e raggiunsero risultati importanti nell’eliminazione delle armi di distruzione di massa, in particolare con il Trattato sulle Forze Nucleari a Medio Raggio (INF).
L’obiettivo dei governi russo e americano era di agire di comune accordo per promuovere la pace e costruire in questo modo un nuovo ordine globale. Come la riconciliazione franco-tedesca dopo la seconda guerra mondiale, che aprì la via alla costruzione di istituzioni comuni (a partire dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio - CECA), la condizione preliminare per l’intesa russo-americana era la fiducia reciproca, che costituì la base per il progetto visionario di Gorbaciov di una Casa Comune Europea che includesse l’Europa orientale e occidentale, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Il progetto di Gorbaciov si basava su due concetti strategici – sicurezza reciproca e difesa non offensiva – e portò all’avvio, nel 1994, dell’Alleanza per la Pace, un programma di cooperazione bilaterale tra NATO e Russia.
Il processo, tuttavia, fu interrotto dagli USA, i quali, convinti di aver vinto la guerra fredda, adottarono una politica aggressiva nei confronti della Russia e perseguirono il disegno di diventare un impero mondiale. Ma il piano fallì perché si basava su una percezione distorta delle relazioni di potere a livello mondiale. Trump ha scelto la via del nazionalismo, ritirando gli USA dagli accordi sugli armamenti, sul commercio internazionale e sull’ambiente. Inaspettatamente, dopo la caduta del muro di Berlino, nuovi muri sono stati eretti, più poliziotti sono stati schierati ai confini nazionali, più profughi sono stati respinti. È iniziato un nuovo ciclo politico, ispirato dall’illusione che il ritorno al nazionalismo possa offrire protezione contro le paure e i pericoli generati dalla globalizzazione. Con un fenomeno concomitante, di “degrado culturale”, che caratterizza la nuova era: i risultati della ricerca scientifica, specialmente quelli sulla protezione dell’ambiente e la lotta ai cambiamenti climatici, vengono messi in dubbio e respinti da leader politici di destra. È un sintomo allarmante della regressione culturale in atto, nonché del peso degli interessi economici immediati. Le tensioni internazionali crescenti, il ritorno della politica di potenza e dell’anarchia internazionale ci fanno temere che la guerra possa tornare.
L’unica alternativa a questa ideologia reazionaria consiste nell'adeguare le istituzioni politiche alle dimensioni globali acquisite dai mercati e dalla società civile in modo da rendere possibile il governo della globalizzazione. Ciò significa che lo scontro tra nazionalismo e federalismo è il leitmotiv dell’era post-Guerra Fredda. È questo il messaggio più importante che ci ha trasmesso il Manifesto di Ventotene.
Si tende a sottovalutare il ruolo stabilizzatore svolto dall’UE dopo la caduta del muro di Berlino. Di fatto, senza l’allargamento a Est dell’Unione, l’Europa orientale sarebbe stata lacerata da guerre civili e conflitti etnici. Solo la ex-Jugoslavia e l’Ucraina hanno sperimentato quello che generalmente accade quando cade un impero: un bagno di sangue. L’UE potrebbe veramente essere, con la Russia, promotrice della costruzione di uno spazio comune di fiducia e sicurezza da estendere in futuro agli altri protagonisti della politica mondiale. I vecchi trattati per il controllo degli armamenti, che non includono UE, Cina e India, sono ormai inadeguati ed è giunto il momento di progettare un piano globale per la pace.
Mentre celebriamo il trentesimo anniversario della caduta del muro, la tutela della libertà e dei diritti umani è nuovamente al centro del dibattito politico. La sfida viene dalle cosiddette “democrazie illiberali” la cui influenza, nel nostro secolo, è in crescita. Diversi leader neo-liberisti hanno voltato le spalle ai principi democratici in favore di idee autoritarie, nazionaliste e razziste. È ciò che sta accadendo negli USA con Trump, in Russia con Putin, in Brasile con Bolsonaro, in Ungheria con Orbán, in Turchia con Erdoğan, in India con Modi, nelle Filippine con Duterte.
In un’intervista rilasciata al Financial Times durante il G20 in Giappone, lo scorso giugno, Vladimir Putin ha dichiarato che “il liberalismo è diventato obsoleto. Questa idea è entrata in conflitto con la schiacciante maggioranza della popolazione”. In realtà, la dichiarazione di Putin contiene solo una parte di verità. Infatti, come rilevato nel rapporto Freedom in the World 2019, pubblicato da Freedom House, il 2018 è stato il tredicesimo anno consecutivo in cui si è registrato un declino della libertà globale. Ma l’arretramento generale della democrazia non significa che i principi di libertà, stato di diritto e diritti umani abbiano fallito. Per citare solo un esempio, le manifestazioni di massa a Hong Kong contro il governo cinese dimostrano che i valori democratici continuano ad esercitare una forte attrazione. In realtà, la vera ragione per cui le democrazie liberali perdono consenso sta nel fatto che esse continuano ad applicare i propri principi solo a livello nazionale e non riescono ad estendere la portata dei loro valori e delle loro istituzioni a livello internazionale.
Ciò che è obsoleto è lo Stato nazionale e la sua sopravvivenza nell’era della globalizzazione, mentre centri privati di potere – la finanza internazionale, le società multinazionali o le organizzazioni criminali – hanno assunto una dimensione globale e acquisito una sempre maggiore libertà d’azione nei confronti dei poteri statali. Qui sta la radice del declino dello stato sovrano cui si potrà fare fronte solo attraverso l’istituzione di nuove forme di statualità a livello regionale e mondiale. Questa è la condizione che consentirà di ristabilire il primato della politica sui mercati globali e sulla società civile globale.
Secondo la teoria federalista, il limite del modello nazionale consiste nel carattere esclusivo della solidarietà nazionale che non tollera nessuna forma di lealismo verso le comunità più piccole o più grandi della nazione stessa. Il federalismo è una formula istituzionale che consente la coesistenza della solidarietà nei confronti di comunità territoriali di dimensioni diverse, dalle piccole comunità locali fino al mondo intero. Il modello federale deve essere inteso come il superamento, e non la distruzione, del modello nazionale. Esso promuove la riorganizzazione del governo in due direzioni: verso l’alto e verso il basso. In effetti, il disegno federalista consente di superare i limiti della democrazia nazionale, che è in declino a causa dell’eccessiva concentrazione di potere nelle mani dei governi nazionali, grazie all’aggiunta di nuovi livelli di governo, di partecipazione popolare e di cittadinanza, al di sopra e all’interno delle nazioni.
*Membro dell'UEF Federal Committee, già Presidente del Movimento Federalista Europeo, Direttore di The Federalist Debate - (il Commento è la traduzione dell'editoriale del n.3/2019 della rivista)