La delusione della COP26 e le speranze di un nuovo multilateralismo

Roberto Palea

Commento n. 236 - 23 novembre 2021 

Dobbiamo prender atto del fallimento della COP26 di Glasgow per quanto riguarda il contenimento del riscaldamento climatico dovuto alle emissioni di CO2 e di altri gas ad effetto serra (tra cui il metano) prodotte dalla combustione di carburanti fossili (carbone, petrolio, gas naturale) ad opera dell’uomo, come indicato “inequivocabilmente” dal Sixth Assessment Report dell’IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change).

Sarebbe, tuttavia, miope non ammettere che soprattutto nel G20 di Roma, ma anche durante e dopo la COP26, si sono manifestati fatti nuovi che consentono un filo di speranza. Mi pare che sia stato riconosciuto all’Unione Europea (UE) il ruolo di leadership e, quindi, di stimolo per il resto del mondo, nella transizione verso un futuro sostenibile, basato sulle energie rinnovabili e sull’idrogeno, la mobilità elettrica, l’elettrificazione di ogni comparto dell’attività umana.

L’UE non solo ha rispettato gli impegni derivanti dal Trattato sul Clima di Parigi, ma ha ridotto le sue emissioni dal 1990 al 2019 del 24%, mentre l’economia dell’UE è cresciuta del 60% nello stesso periodo.

È inoltre emersa tra gli Stati della Terra la propensione verso un “nuovo multilateralismo”, diretto alla collaborazione tra gli Stati sovrani, almeno in certi ambiti. La base di questo nuovo multilateralismo è la consapevolezza della dimensione globale delle emergenze epocali, tra di loro strettamente interconnesse, che possono essere affrontate dagli Stati soltanto insieme. Una consapevolezza che è diventata convinzione generalizzata, per quanto riguarda il clima e l’ambiente naturale, le pandemie quali quelle da COVID19, le diseguaglianze economiche e sociali che non si sono ridotte ma, anzi, sono aumentate – tra gli Stati, ma anche e soprattutto all’interno degli stessi.

Questo nuovo multilateralismo ha coinvolto non solo gli Stati Uniti e l’UE ma anche altri grandi potenze, tra le quali l’India e la Cina, e deve essere ora esteso al Giappone, alla Turchia e all’Iran. Il rapporto (indispensabile), con la Russia di Putin resterà problematico per molto tempo, anche a causa della violenta offensiva da essa condotta con l’improvviso aumento del gas metano e del petrolio, l’utilizzo di profughi afghani a mezzo della Bielorussia di Lukashenko, alla frontiera con la Polonia, e la possibile ripresa delle incursioni militari in Ucraina per dimostrare la fragilità della difesa europea.

Per quanto riguarda il rapporto con il Continente Africano, l’UE nel suo Green Deal ha previsto di produrre energie rinnovabili ed idrogeno nei paesi “solarmente ricchi” dell’Africa Sahariana e Subsahariana nel quadro di un accordo con l’Unione Africana (che oggi comprende 55 Stati e che si è ispirata al modello europeo nella sua costituzione). L’obiettivo principale dovrebbe essere quello dello sviluppo endogeno dei Paesi africani attraverso la disponibilità di energia (destinata anche all’estrazione di acqua potabile dal sottosuolo ed alla desalinizzazione dell’acqua marina) e l’esportazione del surplus di energia green e di idrogeno verso l’Europa, attraverso le condutture già esistenti.

L’Europa ha per sua vocazione quella di occuparsi dello sviluppo sostenibile e sanitario dell’intero continente africano in collaborazione con l’Unione Africana, che nel 2021 ha avviato l’area di libero scambio panafricano (AfCFTA) e che si propone di dotarsi di una moneta comune, possibilmente collegata ai Diritti Speciali di Prelievo (DSP), e di potenziare la già esistente Banca Centrale Africana.

L’UE si assicurerebbe così che le emissioni di CO2 e degli altri gas ad effetto serra dell’Africa vengano contenute, contribuendo nel contempo a raffreddare i flussi migratori verso l’Europa, per effetto dei nuovi posti di lavoro che deriverebbero dallo sviluppo economico sostenibile indotto.

Un secondo fattore che spinge verso il citato nuovo multilateralismo è l’esistenza di elevatissime disponibilità finanziarie pubbliche e private (Mario Draghi, nel corso del G20 ha parlato di 130 trilioni di dollari), impiegabili nei paesi più sottosviluppati e fragili.

La Dichiarazione congiunta di Cina e Stati Uniti, alla COP26, su un piano comune per tagliare le emissioni inquinanti, seguita dagli incontri tra Joe Biden e Xi Jinping e di John Kerry con i responsabili della diplomazia climatica cinese, va nella giusta direzione. Così come fa ben sperare l’atteggiamento possibilista del primo ministro indiano Narendra Modi, in questi ultimi giorni, di fronte alle morti per pandemia e all’irrespirabilità dell’aria nelle città indiane causata dalle fabbriche a carbone.

L’impegno globale dell’UE dovrebbe essere, a medio termine, ambizioso e su più fronti: promuovere una nuova Organizzazione Mondiale per l’Energia e l’Ambiente (OMEA), retta da un’Alta Autorità (secondo il modello europeo della CECA), sotto il controllo dell’ONU, per affrontare i cambiamenti climatici (e allocare il fondo di 100 miliardi di dollari all’anno, resi disponibili dal G20); rivitalizzare la World Trade Organization (WTO) per negoziare un prezzo per il carbonio equo per tutti i Paesi (che in parte potrebbe finanziare l’OMEA) e sostenere la tassa globale sull’attività delle società multinazionali, già decisa dall’OCSE; spingere la Banca Mondiale a emettere Green Bond, denominati in DSP, in accordo con il Fondo Monetario Internazionale, orientando i fondi verso investimenti per lo sviluppo sostenibile in Africa e in Medio Oriente.

L’umanità otterrebbe dei vantaggi molto più elevati e sopporterebbe costi molto minori agendo subito per ridurre le emissioni climalteranti, affrontando in tempi brevi gli elevatissimi investimenti necessari, piuttosto che far fronte a posteriori alle spese per la mitigazione e la riparazione dei danni (senza tener conto dei decessi e delle sofferenze delle persone). Ma la collaborazione tra Stati sovrani, come ci ha insegnato Jean Monnet, ha bisogno di istituzioni comuni: questo problema è ineludibile anche nei tentativi di avviare quel “nuovo multilateralismo” di cui il mondo ha bisogno.

*Già Presidente del Centro Studi sul Federalismo, membro dell’EAERE - European Association of Environmental and Resource Economists

Download pdf

English version

Centro Studi Federalismo

© 2001 - 2024 - Centro Studi sul Federalismo - Codice Fiscale 94067130016

Fondazione Compagnia San Paolo
Le attività del Centro Studi sul Federalismo sono realizzate con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo
Fondazione Collegio Carlo Alberto
Si ringrazia la Fondazione Collegio Carlo Alberto