Stefano Piperno / 2 aprile 2024
Commento n. 293
Lo scorso 23 gennaio il Senato ha approvato il ddl “Disposizioni per l’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione”, che era stato presentato dal Governo su proposta del Ministro Calderoli nel marzo del 2023. Il disegno di legge originario ha subito alcune significative modifiche nel corso dell’esame nella Commissione affari costituzionali del Senato. Adesso è iniziato il percorso nella Commissione affari costituzionali della Camera, in vista dell’approvazione definitiva. Sui suoi tempi non è facile fare previsioni essendo questi legati a un accordo all’interno della maggioranza di governo per l’introduzione in parallelo di un sistema di premierato a elezione diretta, che richiede una legge costituzionale, sulla quale si preannunziano battaglie parlamentari.
Nel testo approvato vi sono due cambiamenti rispetto all’impianto originario che è bene segnalare perché rispondono – almeno in parte – ad alcune carenze riscontrate nella proposta iniziale. Il primo è relativo alle modalità di individuazione delle competenze aggiuntive da attribuire alle Regioni che le richiedono, mentre il secondo concerne il meccanismo previsto per il loro finanziamento. Sul primo aspetto, da un lato, si lamentava l’assenza di vincoli in merito alla scelta delle materie da trasferire, dall’altro si sosteneva la necessità di richiedere motivazioni più specifiche per le richieste regionali, sinora basate su assunti generici come il riferimento a “esigenze legate alle specificità regionali” o, addirittura, “la presunzione di essere più brave dello Stato”. Nella legge (art. 5, c. 1) è stata così inserita la possibilità per il Presidente del Consiglio (anche su proposta dei Ministri competenti) di limitare l’oggetto del negoziato rispetto alle materie o ambiti di materie individuati dalla Regione “per tutelare l’unità giuridica ed economica del Paese”. Si è anche aggiunto che il Presidente del Consiglio o il Ministro per gli affari regionali e le autonomie al fine di avviare il negoziato devono tener conto del quadro finanziario della Regione (art. 5, c. 2), senza però fare riferimento ad altri indicatori generali di capacità amministrativa nelle diverse politiche pubbliche. Non è stata invece accettata la proposta di specificare nominativamente nella legge alcune materie o ambiti di materie comunque non attribuibili (si pensi alle “grandi reti di trasporto e comunicazione”, alle “norme generali sull’istruzione”, o alla “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”). Limitare maggiormente l’ambito materiale delle intese con le Regioni sarebbe peraltro risultato inefficace, in quanto derogabile da una successiva approvazione dell’intesa con legge rinforzata. Solo una riforma costituzionale (che pure è stata presentata su iniziativa popolare) potrebbe, infatti, offrire piene garanzie in questo senso. Si sarebbe però potuto inserire qualche richiesta in più sul contenuto delle proposte regionali per quanto riguarda la valutazione analitica dei costi e dei benefici previsti a seguito dell’attribuzione di nuove competenze. Tutto è quindi rimandato alle future trattative tra Stato e Regioni e alle intese che ne sortiranno, ma i rischi di una eccessiva frammentazione delle competenze tra livelli di governo (specie per quelle di natura regolamentare) permangono.
Passando ai profili finanziari, la legge introduce alcune disposizioni rilevanti (art. 8):
- l’attuazione dell’autonomia differenziata deve garantire l’invarianza nella distribuzione delle risorse tra le Regioni ad autonomia differenziata e le altre, nel rispetto degli equilibri della finanza pubblica;
- le commissioni paritetiche previste nelle intese Stato-Regioni provvedono annualmente alla ricognizione dell’allineamento tra i fabbisogni di spesa già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati per il finanziamento delle funzioni trasferite (però senza nessun esplicito coordinamento tra di loro);
- vengono individuate le materie (15 su 23 possibili, art. 3, c. 3) all’interno dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, per le quali occorre individuare i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), insieme a una valutazione dei fabbisogni standard necessari per la loro fornitura prima del trasferimento delle nuove funzioni, mentre per le rimanenti questo potrà avvenire a partire dalla sua approvazione definitiva.
In questo quadro, una novità significativa è rappresentata dal fatto che si è stabilito che per ogni anno di vigenza dell’intesa dovrà essere verificata la copertura dei fabbisogni di spesa con le compartecipazioni ai tributi erariali assegnati, evitando che le Regioni, con la dinamica maggiore della base imponibile, possano vedersi attribuite risorse aggiuntive (come avviene per le Regioni a Statuto speciale) nel corso del tempo. In questa maniera sembrano eliminate le ultime suggestioni in merito all’appropriazione del residuo fiscale da parte delle Regioni più ricche. Restano però molti dubbi sulla capacità di garantire una adeguata perequazione delle risorse tra regioni più o meno sviluppate, dati i vincoli di finanza pubblica. Nonostante le modifiche, il provvedimento continua così ad avere un carattere molto divisivo tra le forze politiche (anche per altre ragioni qui non richiamate come, secondo alcuni costituzionalisti, l’insufficiente ruolo assegnato al Parlamento in tutto il processo), con il rischio di compromettere tutto il percorso attuativo del federalismo fiscale. Come uscirne?
Il professor Beniamino Caravita, nel luglio del 2019, prima della sua prematura scomparsa, proponeva di “smettere di comportarci da hooligan, tifosi sfegatati dell’una o dell’altra tesi politica, incapaci di ascoltare le ragioni dell’altro, e comportarci da vulcaniani, esaminando razionalmente tutti gli elementi della situazione data”. Se seguiamo il suo consiglio, pare evidente che siamo di fronte a una alternativa: o si riavvia il processo attuativo della L. n. 42/2009 e del D. Lgs. n. 68/2011 che regola il finanziamento e la perequazione delle funzioni di spesa già oggi esercitate, con la specificazione dei LEP e dei relativi costi standard (a partire dai lavori della Commissione Cassese, che però richiedono ancora molti approfondimenti), inclusi quelli relativi alle funzioni differenziate, la fiscalizzazione dei trasferimenti statali residui, l’individuazione dei fabbisogni infrastrutturali, la stabilizzazione dei tributi regionali (pensiamo solo al continuo abbattimento della base imponibile dell’IRAP, fino alla sua abolizione prevista dalla legge delega sulla riforma fiscale), rendendolo coerente con l’autonomia differenziata; oppure bisogna immaginare un modello diverso, non facilmente definibile in tempi brevi. Vi è però una opportunità: la scadenza della riforma abilitante collegata all’attuazione del PNRR, da realizzare entro il primo quadrimestre del 2026, rappresentata dal completamento del quadro normativo di riferimento per il federalismo fiscale regionale. La possibilità di definire i meccanismi concreti per la sua applicazione è stata poi fatta slittare sino al primo quadrimestre del 2027 dalla legge di bilancio per il 2023. Si tratta di un margine temporale che potrebbe consentire una soluzione “vulcaniana”.
*Collaboratore del Centro Studi sul Federalismo