Federico Fabbrini / 5 novembre 2024
Commento n. 307
Oggi, 5 novembre, milioni di cittadini americani si recheranno alle urne per scegliere il prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America (USA), e contestualmente per eleggere i 435 membri della Camera dei Rappresentanti, un terzo dei 100 membri del Senato, nonché per votare svariate cariche statali e locali, e alcuni referendum. Questa elezione – che in realtà è già iniziata da alcune settimane, in molti stati degli USA che consentono il voto anticipato (early voting) – avrà conseguenze epocali. In particolare, la competizione per la presidenza tra la candidata democratica Kamala Harris e il rivale repubblicano Donald Trump determinerà il futuro degli USA e del loro esperimento democratico di autogoverno. Allo stesso tempo, però, le conseguenze delle elezioni si riverbereranno sul mondo intero, con particolare impatto sull’Unione europea (UE) e le prospettive del processo d’integrazione.
Allo stato attuale, ci sono tre incertezze e tre certezze sulle elezioni americane. Per quanto riguarda le incertezze, innanzi tutto non sappiamo ancora chi vincerà le elezioni presidenziali, e altresì quale partito conquisterà la maggioranza nella Camera dei Rappresentanti e nel Senato – essenziale per mettere in atto qualsiasi programma legislativo in materia di politica interna. In secondo luogo, per quanto riguarda le elezioni presidenziali, non sappiamo esattamente quando sarà noto il risultato finale, poiché il sistema federale di voto – e i margini di scarto ridotto con cui un candidato potrebbe prevalere nei cosiddetti swing states – potrebbero richiedere un conteggio (e un eventuale riconteggio) delle schede elettorali, dispendioso in termini di tempo. Soprattutto, è incerto se chi perderà le elezioni sarà disposto ad accettare il risultato degli elettori. Già dopo le elezioni del 2020, Donald Trump aveva messo in discussione la legittima vittoria di Joe Biden, aveva poi cercato di ribaltare l’esito del voto, e in ultima analisi aveva sobillato la folla che il 6 gennaio 2021 assaltò il Campidoglio – la sede del Congresso USA – al fine di impedire la certificazione del voto elettorale in favore del suo rivale. Sebbene oggi sarà proprio Kamala Harris, in qualità di vice presidente in carica, e dunque ex officio presidente del Senato, a supervisionare questo processo formale, vi è il timore che Donald Trump, e movimenti violenti associati a lui, possano opporsi con la forza alla transizione pacifica del potere.
Il che ci porta ad alcune considerazioni su quali siano le certezze che già possiamo avere all’alba di queste elezioni. La prima è che gli USA sono un paese profondamente diviso. Nonostante Donald Trump abbia gestito la sua presidenza dal 2016 al 2020 in modo confuso ed erratico (in particolare nel rispondere alla pandemia), nonostante egli sia stato condannato penalmente da un tribunale dello stato di New York per crimini di frode fiscale, e nonostante egli abbia apertamente messo in discussione durante la campagna elettorale i principi della democrazia e dello stato di diritto e dato adito a teorie false e cospirative, quasi un americano su due (tra quelli che votano) è sostanzialmente pronto ad eleggerlo comunque alla Casa Bianca. La polarizzazione politica degli USA – che da tempo è oggetto di approfondito studio da parte sia dei politologi sia degli studiosi di comunicazione – ha ormai diviso il paese in due Americhe, sempre più incapaci di comunicare tra loro, e ridotto dunque i margini di compromesso necessari al buon funzionamento di una democrazia.
Trascorrendo un po’ di tempo negli USA – un paese geograficamente molto vasto, culturalmente diversificato, e sociologicamente complesso – è possibile constatare in prima persona come la polarizzazione sopra descritta non sia destinata a diminuire. Questa è appunto la seconda certezza: comunque vadano a finire queste elezioni, gli USA resteranno un paese diviso, anche laddove Donald Trump dovesse risultare sconfitto – sia nel voto popolare sia in quello del collegio elettorale. Al di là della sua personale candidatura, con il movimento MAGA Donald Trump ha riplasmato il partito Repubblicano, e le sue posizioni politiche sono ormai largamente condivise da rappresentati eletti nei legislativi federali e degli stati. Infatti, attorno a Trump si è formata una coalizione di interessi socio-economici – che bizzarramente accomuna lavoratori di aree povere e de-industrializzate del paese con ultra-ricchi imprenditori delle tecnologie di frontiera, tipo Elon Musk – i quali si identificano nelle sue politiche ostili, allo stesso tempo, alla globalizzazione, alla regolazione e alla tassazione.
Da qui consegue una terza certezza, cruciale soprattutto per l’Europa. Al di là dell’esito del voto del 5 novembre, è tempo che l’UE aumenti la sua autonomia strategica e capacità d’azione, specie nel campo della politica della difesa, in modo da ridurre la sua dipendenza dagli USA. Se Donald Trump dovesse riconquistare la presidenza, questo comporterebbe la fine quasi certa della NATO, e con essa dello scudo protettivo dell’America sulla sicurezza europea, oltre che del sostegno alla Ucraina. Ma anche se Kamala Harris dovesse riuscire ad arrivare alla presidenza, non è dato sapere se il Congresso degli USA – che ha il controllo della spesa, e una voce importante nella conclusione degli accordi internazionali – sarà a maggioranza democratica o trumpiana, e quindi ostile al ruolo internazionale che gli USA hanno avuto dalla II guerra mondiale in poi. E comunque vada, non è più né ragionevole né giustificabile che ogni quattro anni l’Europa debba rimanere con il fiato sospeso per il risultato del voto americano. Detto altrimenti, il futuro dell’Europa non può dipendere dal voto di pochi elettori in Pennsylvania o Georgia. Al di là delle incertezze del voto negli USA, è certo che l’UE può e deve fare di più per badare a sé stessa.
*Federico Fabbrini è Professore ordinario presso la Dublin City University. È stato Visiting Professor presso la Princeton University; attualmente si trova negli USA per una serie di lezioni e conferenze presso, tra l’altro, la Emory Law School, ad Atlanta (Georgia), Princeton University (New Jersey) e la Columbia Law School, a New York (New York).