Lo European Sovereignty Fund come veicolo della politica industriale europea

Lo European Sovereignty Fund come veicolo  della politica industriale europea

Olimpia Fontana e Simone Vannuccini
   

Commento n. 261 - 11 maggio 2023 

Industrial policy is back! Quella che il Fondo Monetario Internazionale ha definito come “the policy that shall not be named” sta tornando in auge in diverse parti del mondo, inclusa l’Unione europea (Ue), dove finora ha sempre avuto una connotazione nazionale o si è limitata a garantire le framework conditions, mentre a livello comunitario hanno prevalso le politiche di concorrenza e commercio. Le motivazioni di questo cambio di passo sono soprattutto riconducibili a un atteggiamento più assertivo in un contesto geopolitico internazionale dominato dall’antagonismo tra Cina e Stati Uniti e accompagnato da ripetute crisi fortemente destabilizzanti. Di recente la Commissione europea ha promosso l’idea di una politica industriale europea finanziata da risorse comuni, attraverso la creazione di un European Sovereignty Fund (ESF). L’intenzione è duplice: dare un segnale al mondo della posizione di leadership economica e tecnologica che l’Ue aspira a mantenere nei mercati internazionali; contrastare la concorrenza sleale, la corsa ai sussidi e la fuga di imprese oltre oceano, soprattutto dopo il lancio dell’Inflation Reduction Act (IRA) degli Stati Uniti.

La discussione sulla politica industriale a livello Ue appare e scompare a intervalli regolari. Già nel 2014 si discuteva di “industrial renaissance” e dell’obiettivo di incrementare la quota di prodotto industriale fino al 20% del Pil dell’Ue. A marzo del 2020 la Commissione aveva lanciato il New Industrial Strategy for Europe, ma la pandemia ha messo in luce vulnerabilità e dipendenze tecnologiche e industriali del sistema economico europeo e il bisogno di interventi diretti a supporto di settori specifici dell’economia. Il riconoscimento di dipendenze strategiche dell’Ue è emerso ancora con più evidenza con la guerra in Ucraina. La decisione di emanciparsi da fonti energetiche provenienti dalla Russia ha spinto ulteriormente verso la ricerca di un’autonomia strategica, intesa come “the ability to act autonomously as well as to choose when, in which area, and if, to act with like-minded partners.”. Sebbene puntare su una open strategic autonomy rischi di fare eco al neo-protezionismo americano, la nuova politica industriale europea deve basarsi sulla necessità di garantire coerenza interna e resilienza a sistemi economici che possono fare sempre meno appoggio su una globalizzazione completa delle filiere del valore.

Questo cambio di passo è storico, considerando che nell’Ue la politica industriale si fa a livello nazionale e in misura limitata. Gli aiuti di Stato, infatti, sono in contrasto con il buon funzionamento del Mercato unico, il caposaldo dell’integrazione economica, poiché alterano le condizioni di parità (il “level playing field”) tra imprese situate in diversi paesi membri. Per questo motivo, la politica di concorrenza è sempre stata di esclusiva competenza dell’Ue e mirata a ridurre gli interventi pubblici. Tuttavia, se da una parte le politiche nazionali industriali sono state sottoposte alla disciplina europea sugli aiuti di Stato, dall’altra non sono stati previsti a livello comune fondi dedicati per l’industria europea, anche a causa delle ridotte dimensioni del bilancio europeo. Questa ipotesi sta circolando adesso grazie alla proposta di creare uno ESF.

La proposta dell’ESF è contenuta all’interno del Green Deal Industrial Plan for the Net-Zero Age, lanciato per rafforzare la competitività industriale europea in vista della transizione ecologica nell’attuale contesto globale. Oggi si registra una corsa alla competizione internazionale sul piano delle clean tech che se da una parte può portare a benefici in termini ambientali, dall’altra può produrre effetti distorsivi sul mercato. Iniziative di politica industriale come quelle della Cina all’interno del suo quattordicesimo piano quinquennale, volto ad aumentare la quota delle industrie strategiche emergenti dall'11,5% del PIL nel 2019 a oltre il 17% entro il 2025, o dell’IRA statunitense, che mette in campo 330 miliardi di euro di sussidi per il reshoring sul territorio americano nel settore clean tech, spingono l’Ue a dotarsi di contromisure. Per esempio, questa è la dinamica dietro al progetto dello European Chips Act diretto al settore dei semiconduttori, che risponde al Chips and Science Act americano lanciato nel 2022.

Per potenziare gli investimenti necessari alla transizione, la Commissione propone un ulteriore alleggerimento della disciplina sugli aiuti di Stato, sulla scia del cambiamento già iniziato per affrontare la pandemia e la crisi energetica. Il Temporary Crisis and Transition Framework sarà delimitato dalle esigenze della transizione. Per mitigare il rischio di squilibri tra paesi membri con capacità fiscali diverse esistono già diversi strumenti che associano l’obiettivo della decarbonizzazione a quello della convergenza: il Recovery and Resilience Facility (aggiornato con il capitolo RePowerEU), Horizon Europe, InvestEU, la politica di coesione, i prestiti della European Investment Bank. In aggiunta, la Commissione sta esplorando le possibilità di un maggiore finanziamento a livello europeo con l’obiettivo di mantenere – nel quadro del Green Deal Industrial Plan – “a European edge on critical and emerging technologies relevant to the green and digital transitions, from computing-related technologies, including microelectronics, quantum computing, and artificial intelligence, to biotechnology and biomanufacturing and net-zero technologies”. Riguardo ai progetti, il riferimento sono gli IPCEI (Important Projects of Common European Interest), iniziative di collaborazione industriale tra imprese situate in diversi paesi membri. Quindi, se finora erano i governi nazionali a supportare tali progetti in virtù dell’allentamento delle regole sugli aiuti di Stato, con lo ESF si vogliono rendere disponibili nuove risorse a livello europeo.

L’ESF può diventare il veicolo istituzionale per il sostegno dell’industria continentale. Due questioni “architetturali” restano aperte. Da una parte, sull’origine delle risorse finanziarie a disposizione, anche alla luce del fabbisogno effettivo di investimenti per il Net-zero Industrial Plan. Dopo l’esperienza dell’emissione di debito comune europeo per 750 miliardi di euro per Next Generation EU (NGEU), i commissari europei Paolo Gentiloni e Thierry Breton avevano sottolineato la necessità di compensare l’incapacità di spesa pubblica da parte di alcuni paesi membri con nuove forme di solidarietà europea (in pratica nuovo debito comune) per rispondere alle crisi e preservare il Mercato unico. Tale posizione è poi stata rivista dallo stesso Breton alla luce delle risorse del NGEU ancora da spendere, negando quindi la possibilità di nuovo debito comune. Dall’altra, sulle priorità di intervento da includere nelle voci di spesa. Tecnologie abilitanti legate alla green and digital transition dovranno essere la priorità, in particolare input chiave come semiconduttori e batterie che sono alla base di diverse filiere produttive, non soltanto high tech.

In generale, sarà necessario chiarire se l’Ue vuole un’agenzia specializzata con il compito di supportare lo sviluppo di tecnologie di frontiera (in linea con le agenzie ARPA/DARPA negli Stati Uniti, Sprind in Germania, e ARIA nel Regno Unito), o un’istituzione con un raggio d’azione più vasto – un vero e proprio fondo di investimento pubblico dedicato a interventi in asset strategici. In ogni caso, in un contesto globale sempre più teso e competitivo e meno interdipendente, i policy makers europei non possono rimandare ulteriormente la messa in pratica di una politica industriale europea che vada oltre le grandi dichiarazioni di principio.

*Olimpia Fontana è Mario Albertini Fellow del Centro Studi sul Federalismo; Simone Vannuccini è Professore di Economia dell’Intelligenza Artificiale e dell’Innovazione alla Université Côte d’Azur (Nizza)

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