Domenico Moro
Commento n. 186 - 24 luglio 2020
Il dibattito è stato aperto da Thomas Piketty, con un articolo su Le Monde dello scorso 11 luglio dal titolo «Pour reconstruire l’internationalisme, il faut tourner le dos à l’idéologie du libre-échange absolu». Poi ha fatto seguito l’intervista, dal titolo “Ci salverà il protezionismo progressista”, al politologo bulgaro Ivan Krastev, direttore del Centre for Liberal Strategies di Sofia (La Stampa, 14 luglio). Il tema è quello della possibilità di perseguire un modello di sviluppo autonomo per una comunità politica indipendente, ma aperta agli scambi con il resto del mondo: una prospettiva meno remota di quanto possa sembrare.
Piketty sostiene che se si vuole “adottare un nuovo modello di sviluppo fondato su espliciti principi di giustizia economica ed ambientale”, al limite al livello del solo Stato nazionale, occorrerà introdurre delle “sanzioni commerciali”. Krastev, da parte sua, osserva che “finora avevamo [noi europei, NdA] coltivato l’idea della missione, la convinzione che possedessimo il futuro e potessimo esportarlo. Fuori invece ci sono altre potenze, Russia, India, Cina, e costruiscono il loro futuro indipendentemente da noi”. Per cui, oggi “bisogna accettare il fatto che la missione non c’è più e che se non possiamo plasmare il mondo ma non vogliamo esserne plasmati dobbiamo stringerci in un protezionismo progressista”.
Secondo l’economista francese, il suo sovranismo sarebbe a vocazione internazionalista, e non nazionalista. Nel quadro di assemblee transnazionali non ben precisate – e comunque non il Parlamento europeo –,verrebbe discusso il piano di uno Stato nazionale che intenda scegliere un proprio modello di sviluppo protetto, se necessario, da sanzioni, la cui minaccia – sempre secondo Piketty – dovrebbe essere sufficiente a convincere gli altri paesi a seguire la medesima strada. Krastev, invece, si limita a dire che il “protezionismo progressista”, una volta adottato, deve comunque “continuare a tenere aperta ogni opzione multilaterale”.
Piketty e Krastev intervengono in un momento quanto mai attuale per la prospettiva da loro suggerita. L’UE, infatti, con la proposta di un Green Deal e il recente piano da 750 miliardi di euro, prevede la realizzazione di imponenti investimenti per la transizione energetica e digitale. Molto è già stato detto, soprattutto a proposito del Recovery Plan, il quale è finanziato, per la prima volta, da debito europeo e che dovrà essere rimborsato con imposte europee che, va notato, saranno introdotte senza modifiche dei trattati. Vi è però un punto che il dibattito politico europeo non ha ancora messo in luce e riguarda l’avvio di una politica estera europea.
Il Recovery Plan è parte integrante del Green Deal europeo. Ma non è pensato per un’economia chiusa. È il primo piano di rilancio di un’economia di dimensioni continentali che si inserisce in un quadro mondiale. Non sembra fuori luogo osservare che si tratta del primo piano economico, nella storia, che pretende di dare una direzione di marcia all’intera economia mondiale.
Il piano europeo, infatti, non si sviluppa in una campana di vetro. L’UE è l’economia continentale più aperta agli scambi con il resto del mondo (l’interscambio con l’estero incide per il 39% sul PIL dell’UE, contro il 29% degli USA) e vuole contrastare il riscaldamento globale. Inoltre, il rimborso del prestito europeo si basa su imposte che toccano direttamente i suoi rapporti con il resto del mondo: il meccanismo di aggiustamento carbonio alla frontiera, il ricorso a risorse proprie basate sul sistema di scambio di quote di emissioni esteso ai settori marittimo e aereo, l’imposta sui cosiddetti GAFA e la tassa sulle transazioni finanziarie.
La transizione ad un’economia carbon free richiederà un uso incisivo di questi strumenti, che comportano costi importanti per il settore produttivo europeo. Quest’ultimo può sostenerli con misure che compensino non solo il dumping ambientale e sociale quotidiano da parte della Cina e altri paesi, ma soprattutto i costi aggiuntivi che si renderanno necessari per raggiungere i nuovi obiettivi energetici.
È impensabile che l’UE possa sostenere, con successo, la transizione energetica e quella digitale facendone pesare il costo solo sul proprio sistema industriale e nel contempo continuare ad importare beni da Cina e USA (e altri paesi) senza innescare misure protezionistiche a catena, se essi non dovessero adottare la stessa politica ambientale e fiscale dell’UE. Così come è impensabile che l’UE possa tassare aerei e navi senza un accordo con i paesi che possiedono compagnie aeree e navali, o i GAFA senza un accordo con gli USA. L’efficacia della stessa tassa sulle transazioni finanziarie richiederebbe che venga reintrodotto un minimo di controllo sui movimenti di capitali a breve termine e di armonizzazione fiscale, almeno al livello dei paesi più integrati sul piano finanziario, come l’UE, gli USA e il Giappone.
Con le misure che si appresta ad adottare l’UE, non siamo ancora di fronte allo scenario prospettato da Piketty. In primo luogo, perché, dal punto di vista istituzionale, esse vengono adottate in un quadro democratico-parlamentare europeo e non nazionale. In secondo luogo, perché le aliquote saranno, inizialmente, basse, in quanto applicate su un volume di transazioni più elevato di quello a livello nazionale, e il fabbisogno del bilancio europeo non è certo pari a quello dei bilanci nazionali. Per quanto un giudizio definitivo potrà essere dato solo quando sarà nota la nuova Decisione sulle risorse proprie, i problemi non sono però questi.
Il problema vero è il quadro mondiale in cui le nuove misure dell’UE vengono adottate: quello di uno ordine bipolare che è finito e di un instabile equilibrio multipolare che si sta solo ora affacciando. La fase di transizione, inoltre, si sta caratterizzando per politiche sovraniste e protezioniste da parte del paese, gli USA, che ha dato vita alle istituzioni multilaterali e che non sono riconducibili al colore dell’amministrazione in carica, in quanto Trump sta portando avanti, con maggior determinazione, molte delle politiche avviate da Obama.
A fronte di questo quadro, la tesi sostenuta da Krastev, secondo cui bisogna limitarsi “a tenere aperta ogni opzione multilaterale”, non è una risposta adeguata. Essa ipotizza un ruolo passivo dell’Europa sul piano mondiale, mentre il piano europeo ha senso solo se anche il mondo intraprende la strada da essa seguita, visto che intende contrastare il riscaldamento globale causato dalle emissioni di anidride carbonica, di cui essa emette il 9% del totale mondiale, contro il 15% degli USA e il 30% della Cina.
Il raggiungimento di questo obiettivo, senza che l’Europa venga accusata di protezionismo, è possibile solo ad una condizione: che essa si doti di una propria politica estera e di sicurezza e che, contestualmente, assuma la leadership mondiale dell’aumento dei poteri delle istituzioni multilaterali. In un mondo ancora basato, prevalentemente, sui rapporti di forza, occorre che l’UE, come fecero gli USA alla fine della Seconda guerra mondiale, presenti un piano per il rafforzamento delle istituzioni multilaterali nei settori dove esso è più urgente: sviluppo sostenibile, sicurezza, finanza, commercio.
* Membro del Consiglio Direttivo e Coordinatore dell’Area Sicurezza e Difesa del Centro Studi sul Federalismo (una versione più ampia di questo articolo esce oggi su Eurobull)