Andrea Cofelice
Commento n. 157 - 22 ottobre 2019
Il capitolo VIII della Carta delle Nazioni Unite (ONU) rappresenta il fondamento giuridico per il coinvolgimento delle organizzazioni regionali nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, di cui il Consiglio di Sicurezza è (o dovrebbe essere) il principale responsabile. Tuttavia, tali disposizioni sono state ampiamente disapplicate durante tutto il periodo della guerra fredda. È stato il collasso del sistema bipolare, con il suo corollario di nuove sfide alla sicurezza globale ed aumento dei conflitti armati locali e regionali, a determinare un rinnovato interesse per le organizzazioni regionali e per il loro ruolo nel mantenimento di pace e sicurezza.
Dopo iniziali e sporadici contatti avvenuti nel corso degli anni ’90, è solo nell’ultimo ventennio (in particolare da quando il terrorismo transnazionale si è imposto tra le nuove minacce globali) che le relazioni tra Consiglio di Sicurezza e organizzazioni regionali hanno iniziato ad assumere un carattere più stabile e sistemico. Nel più ampio quadro delle relazioni tra ONU e organizzazioni regionali, il Consiglio sta dando priorità alla cooperazione con tre attori regionali: OSCE (la prima organizzazione ad essere stabilmente associata ai lavori del Consiglio, a partire dal 2001), Unione Africana (UA, dal 2007) e Unione Europea (dal 2010).
Tra i suddetti partenariati, il più strutturato è quello tra Consiglio di Sicurezza, da un lato, e UA e organizzazioni africane sub-regionali, dall’altro: è l’unico, infatti, ad essere oggetto di due strategie ad hoc (adottate rispettivamente nel 2017 e 2018) e ad essere dotato di apposite strutture istituzionali. Pur essendo un processo ancora relativamente giovane, è possibile iniziare a delinearne un primo quadro valutativo. Ad oggi, il partenariato ONU-Africa si sviluppa lungo tre direttrici complementari: rafforzamento delle capacità degli attori regionali africani di prevenire e rispondere in maniera autonoma alle sfide poste a pace e sicurezza in Africa (in base al principio “African solutions to African problems”); cooperazione sul piano operativo, attraverso missioni di pace congiunte; finanziamenti ONU alle missioni dell’UA.
I risultati più promettenti sono stati raggiunti nell’ambito del primo pilastro relativo al capacity building. La volontà politica dell’UA di dispiegare operazioni di pace è stata spesso minata, infatti, dalla mancanza di “capacità” in alcuni settori chiave, tra cui formazione del personale, logistica e alcune tecniche militari. I vari programmi di cooperazione tecnica avviati congiuntamente da Segretariato dell’ONU e Commissione Africana hanno inteso colmare alcuni di questi gap, promuovendo la partecipazione del personale dell’UA ai programmi di formazione e alle missioni sul campo dell’ONU, lo scambio di personale, la predisposizione di manuali operativi ecc.
Particolarmente significativo, in ottica preventiva, è il rafforzamento del quadro istituzionale. L’ONU da un lato sta contribuendo a sostenere (a livello tecnico e finanziario) lo sviluppo della cosiddetta Architettura africana di pace e di sicurezza (istituita dall’UA nel 2002), con particolare riferimento ai meccanismi di early warning, monitoraggio, mediazione e diplomazia preventiva. Dall’altro, ha istituito ben due uffici dedicati esclusivamente ai rapporti con l’UA: uno “sul campo” (l’Ufficio ONU per l’Unione Africana, creato nel 2010 ad Addis Abeba); l’altro presso il proprio quartier generale (l’Ufficio del Segretario generale aggiunto per l’Africa nell’ambito del Dipartimento per gli affari politici e di peacebuilding, istituito nel 2019), con il mandato di fornire un sostegno strategico, politico e operativo unificato all’UA in materia di prevenzione e risoluzione dei conflitti.
Sul piano operativo, l’obiettivo primario è quello di pervenire ad un meccanismo decisionale congiunto Consiglio di Sicurezza-Commissione Africana per pianificare, autorizzare, stabilire il mandato e monitorare le operazioni di peacekeeping e peacebuilding dell’UA, attuate ai sensi del cap. VIII della Carta dell’ONU. Una prima proposta in tal senso è stata presentata dal Segretario Generale ONU nel 2017: il Consiglio di Sicurezza si è tuttavia limitato a prenderne atto, senza adottare alcuna decisione esecutiva.
Nel frattempo, i risultati della cooperazione sul campo tra ONU e organizzazioni africane appaiono piuttosto disomogenei. In generale, è possibile affermare che quando le crisi hanno una dimensione locale o (sub-)regionale, le prospettive di successo di tale cooperazione aumentano. È quanto accaduto, ad esempio, in Africa occidentale, in particolare in Liberia e Guinea Bissau. In quest’ultimo caso, la lunga crisi politica del paese è stata risolta grazie ad una roadmap predisposta congiuntamente da ECOWAS, ONU, UA, Comunità dei Paesi di Lingua Portoghese e Unione Europea, che ha consentito il regolare svolgimento delle elezioni legislative del marzo 2019, la formazione di un governo, nonché un accordo sulla data per le prossime elezioni presidenziali (novembre 2019). Progressi importanti, ancorché fragili e certamente non sufficienti a stabilizzare l’area, sono registrabili anche in Africa centro-orientale (Repubblica Centrafricana e Sud Sudan), grazie all’azione congiunta di ONU, UA e organizzazioni sub-regionali, in particolare Comunità Economica degli Stati dell’Africa Centrale e Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo. Al contrario, quando più forti sono le “interferenze esterne” e i conflitti per procura (es. Libia e Somalia) non vi è sostanzialmente traccia di attività congiunte da parte di queste organizzazioni.
L’aspetto che ha causato maggiori frizioni in Consiglio di Sicurezza riguarda la richiesta, formulata sin dal 2016 da parte dei membri africani, di istituire un meccanismo di finanziamento automatico delle missioni di pace dell’UA attraverso il bilancio ordinario dell’ONU. Si tratta di un tentativo di sopperire alla cronica carenza di fondi dell’UA: ad oggi, tutte le missioni autorizzate dall’UA hanno richiesto finanziatori o partner esterni per il loro effettivo dispiegamento. I principali contributori dell’ONU, tuttavia, si sono mostrati particolarmente restii a impegnare a tal fine una parte del bilancio dell’Organizzazione. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno dichiarato di non voler prendere in considerazione tale possibilità senza la preventiva adozione, da parte dell’UA, di adeguati benchmark per monitorare la trasparenza finanziaria, la condotta e la disciplina del personale impegnato nelle missioni, ed il rispetto per i diritti umani, minacciando anche di porre il veto in caso di qualsiasi progetto di risoluzione in tal senso. È comunque probabile che la richiesta verrà reiterata nei prossimi incontri che il Consiglio di Sicurezza dedicherà al tema.
Il caso dell’UA è indicativo di quanto le organizzazioni regionali svolgano ormai un ruolo sempre più rilevante per il sistema di sicurezza collettivo dell’ONU. È lecito supporre che tali organizzazioni possano ricercare, in futuro, un riconoscimento politico-istituzionale del proprio ruolo anche all’interno dell’ONU. Si aprirà allora una finestra di opportunità per dibattere della possibilità di istituire, se non dei seggi “regionali” presso il Consiglio di Sicurezza (ad oggi, opzione mai veramente considerata dagli stati membri nel dibattito sulla riforma del Consiglio), un quanto mai necessario “forum permanente” per il coordinamento, lo scambio di informazioni e il trust-building tra ONU e organizzazioni regionali.
*Ricercatore del Centro Studi sul Federalismo
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