Stefano Piperno
Commento n. 253 - 5 dicembre 2022
Nel recente confronto elettorale si è tornati a parlare del regionalismo differenziato, ovvero dell’attuazione dell’art.116 comma 3 della Costituzione, che prevede che ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nell’ambito di tutte le funzioni concorrenti e di un ridotto numero di funzioni esclusive statali possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario da parte dello Stato, sulla base di apposite intese che devono poi essere approvate a maggioranza assoluta con legge dal Parlamento. Si tratta di una questione che era stata largamente dibattuta tra il 2017 e il 2020 (facendo seguito ai primi tentativi promossi da alcune Regioni tra il 2006 e il 2009) coinvolgendo i diversi governi che si sono succeduti in quel periodo sino alla crisi pandemica, per poi riaffacciarsi, più timidamente, durante il governo Draghi.
Partendo da questi precedenti, il ministro Calderoli a novembre ha presentato alla Conferenza delle Regioni una bozza preliminare di disegno legge quadro per l’attuazione dell’autonomia, aperta al contributo dei governi subnazionali e delle forze politiche, che dovrebbe fornire una cornice omogenea in termini di procedure e di contenuti per potere attuare i trasferimenti. Si è scelto quindi di evitare l’altra strada attuativa, basata su intese bilaterali tra Governo e Regioni sulle materie da trasferire, con un modello esclusivamente “contrattuale”, che pure all’inizio era sembrata possibile con la stesura di alcune pre-intese nel febbraio 2018 tra lo Stato e le prime tre Regioni che avevano avviato la procedura (Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna). La scelta della legge quadro deriva anche dalle conclusioni della Commissione con compiti di studio, supporto e consulenza in materia di autonomia differenziata, nominata dalla Ministra Gelmini nel 2021 e presieduta dal compianto Prof. Beniamino Caravita, che nella relazione finale (febbraio 2022) ne aveva auspicato una approvazione prima di procedere alle singole intese.
I punti salienti della proposta Calderoli sono i seguenti:
- le proposte regionali elaborate secondo le prescrizioni dei rispettivi statuti vengono inviate al Presidente del Consiglio e al Ministro delegato per gli affari regionali che, richiesto il parere al Ministero dell’economia e finanza, avvia il negoziato con la Regione interessata. Gli schemi di intesa (che possono avere durate diverse) con il governo vengono poi inviati alla Commissione parlamentare per gli affari regionali, per acquisire il parere del Parlamento entro 30 giorni. Lo schema d’intesa definitivo viene predisposto sulla base di tale parere e inviato alla Regione per l’approvazione. Ottenuta questa, lo schema d’intesa torna al Parlamento per la sua approvazione legislativa con maggioranza assoluta, ma senza possibilità di modifiche;
- la bozza prevede che prima di approvare l’intesa vengano definiti i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) sui diritti civili e sociali relativamente alle norme generali sull’istruzione e alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (due materie esclusive statali), e nelle materie concorrenti della tutela e sicurezza sul lavoro, dell’istruzione (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell’istruzione e della formazione professionale), e della tutela della salute. Ma nel caso che entro un anno dall’intesa ciò non sia stato fatto, il trasferimento potrà avvenire comunque, sulla base della spesa storica statale per tali funzioni nelle regioni interessate, che sarà determinata da una commissione paritetica Stato-Regione;
- il finanziamento integrale delle nuove funzioni sarà garantito da una riserva di aliquota o dalle compartecipazioni a uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale e comunque verificato periodicamente dalla commissione paritetica.
La proposta Calderoli ha già sollevato numerose critiche soprattutto per l’insufficiente ruolo assegnato al Parlamento e per l’incertezza sui meccanismi di finanziamento basati sulla spesa storica nel caso di assenza di definizione dei LEP entro un anno dall’approvazione della legge quadro, che potrebbero penalizzare le Regioni con un insufficiente livello di servizi. La riapertura del cantiere dell’autonomia differenziata richiede però di affrontare in via preliminare tre questioni per garantire una sua evoluzione positiva.
La prima è relativa alla necessità di offrire maggiore evidenza circa la convenienza del trasferimento di nuove funzioni e delle relative risorse. Le Regioni interessate hanno offerto sinora giustificazioni generiche, quali l’esigenza di valorizzare le proprie vocazioni territoriali, adattandosi alle specificità e preferenze locali, oppure la necessità di dotarsi di nuove funzioni strumentali per le politiche regionali di sviluppo nel contesto delle politiche regionali europee, o, infine, una mera presunzione di maggiore efficienza dell’azione regionale rispetto a quella statale senza scendere nel dettaglio. Solo una specificazione di queste giustificazioni da parte di ogni Regione può consentire di rispondere alle critiche di chi paventa una eccessiva frammentazione delle competenze. Vi sono certamente delle best practice regionali a cui fare riferimento soprattutto nel campo delle politiche culturali e ambientali.
La seconda è relativa al profilo finanziario dell’asimmetria. La redistribuzione di competenze e risorse deve essere effettuata all’interno di un sistema coerente. Il quadro di riferimento non può che essere la L. 42/2009 e i suoi decreti delegati, in particolare il D.Lgs. n.68/11 con il completamento del sistema di finanziamento regionale. Non si capisce perché ciò non sia stato esplicitato più chiaramente sin dalle prime iniziative in materia di differenziazione, sgombrando definitivamente il sospetto sulla volontà di riappropriarsi dei residui fiscali da parte delle Regioni più ricche. Numerosi documenti elaborati nella scorsa legislatura a livello tecnico-politico dalla Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale, dalla Commissione bicamerale per le questioni regionali e dalla Commissione per i fabbisogni standard offrono precise indicazioni per il nuovo governo, che potrebbe anche porsi l’obiettivo di anticipare la scadenza di attuazione della L.42/09 prevista dal PNRR entro la fine del 2026.
La terza è che, rispetto alle materie oggetto di possibile differenziazione, solo un trasferimento ampio dell’istruzione, compresa la gestione degli insegnanti, comporterebbe una rilevante redistribuzione di risorse tra Stato e Regioni. La complessità di tale operazione relativa a un settore che coinvolge numerosi attori – oltre a essere sottoposto anche a rilevanti interventi attuativi del PNRRR – suggerirebbe di rinviare ad un secondo tempo il trasferimento di questa funzione, come saggiamente proposto dalla Commissione Caravita.
Sarebbe opportuno che le forze politiche trovassero qualche livello minimo di consenso rispetto a tali questioni, portando avanti una linea applicativa graduale, con un approccio “sperimentale”, così come in fondo è stato fatto negli ultimi dieci anni per il federalismo fiscale, nonostante i numerosi stop and go che ne hanno caratterizzato l’attuazione. Difficile, invece, pensare che possa progredire speditamente se questa viene legata alle trasformazioni del nostro sistema di governo parlamentare in uno di tipo presidenziale, come ventilato dalla componente maggioritaria del governo. Vista la delicatezza del processo, perché non cogliere invece l’occasione per applicare l’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, in materia di integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con i rappresentanti delle autonomie locali, a garanzia di un processo attuativo maggiormente partecipato e non limitato agli esecutivi rappresentati nel sistema delle Conferenze?
*Collaboratore del Centro Studi sul Federalismo