Alberto Majocchi - Commento n. 221 - 8 giugno 2021
In un articolo pubblicato il 31 maggio scorso (A Global Incentive to Reduce Emissions), Raghuram Rajan, già governatore della Reserve Bank of India, intende affrontare da un punto di vista globale il problema della riduzione delle emissioni di anidride carbonica – che sono all’origine dei cambiamenti climatici –, con una proposta che garantisca al contempo l’efficienza e l’equità.
Rajan riconosce che lo strumento che gli economisti reputano ottimale per il controllo delle emissioni è rappresentato dall’imposizione di un prezzo sui combustibili fossili che producono CO2, ma questa soluzione provoca “disruptive economic changes in the short run”, e per questa ragione non si riesce a raggiungere un accordo a livello globale. A suo giudizio, occorre invece introdurre un sistema di incentivi e disincentivi che sia in grado di ottenere la riduzione concordata nel livello di emissioni (ad esempio, in misura tale da garantire che l’aumento della temperatura non superi i 2 gradi centigradi, e si avvicini a un aumento di 1,5 gradi, come previsto dagli Accordi di Parigi), assicurando anche un’equa distribuzione dei sacrifici.
In primo luogo, Rajan pone il problema della necessità di garantire un’equa distribuzione degli sforzi (un burden sharing ottimale) per raggiungere l’obiettivo. Da un lato, dato che la riduzione dei rischi climatici presenta le caratteristiche di un bene pubblico globale, i paesi virtuosi temono che altri si comportino come free riders, godendo dei benefici senza sopportare i costi degli interventi necessari per eliminare le emissioni di CO2. D’altro lato, i paesi economicamente meno sviluppati mettono in evidenza l’iniquità di imporre un medesimo sforzo ai paesi che emettono in grandi quantità anidride carbonica e a quelli che ne emettono in misura molto minore, dato il livello più basso di sviluppo.
La soluzione più ragionevole per far fronte a questo dilemma è quella di raggiungere un accordo multilaterale che imponga a tutti i paesi una politica di riduzione delle emissioni, ma al contempo garantisca un supporto finanziario adeguato ai paesi meno sviluppati. E qui Rajan avanza la sua proposta di introdurre “a global carbon incentive (GCI)”. Ovvero: “Ogni paese che emette più della media globale di circa cinque tonnellate pro-capite pagherebbe annualmente a un fondo di incentivazione globale, con l’importo calcolato moltiplicando le emissioni in eccesso pro capite per la popolazione e il GCI. Se il GCI partisse da $ 10 per tonnellata, gli Stati Uniti pagherebbero circa $ 36 miliardi e l’Arabia Saudita pagherebbe $ 4,6 miliardi. Nel frattempo, i paesi al di sotto della media globale pro-capite riceverebbero un compenso commisurato (l’Uganda, ad esempio, riceverebbe circa $ 2,1 miliardi)” (traduzione nostra).
In questo caso non si pone più un problema di free riding: anche l’Uganda avrebbe convenienza ad avviare una politica di riduzione delle emissioni e, al contempo, si potrebbe finanziare un fondo per la distribuzione di incentivi ai paesi economicamente più arretrati: “se il GCI viene aumentato nel corso del tempo, le somme collettive pagate si avvicinerebbero ai 100 miliardi di dollari all'anno che i paesi ricchi hanno promesso ai paesi poveri alla COP15 nel 2009” (idem).
Infine, Rajan rileva correttamente che, nella stima delle emissioni di ciascun paese, occorre includere anche la quantità di emissioni legate al consumo di combustibili fossili utilizzati nel processo di produzione dei beni importati (e lo stesso ammontare deve essere sottratto nella stima delle emissioni dei paesi esportatori).
La proposta di Rajan rappresenta un ulteriore contributo alla crescente consapevolezza del fatto che è necessaria un’iniziativa globale per far fronte con efficacia alla soluzione di problemi globali. Essa segue le proposte della nuova amministrazione americana per una minimum tax globale, che segna un punto di svolta nella prospettiva di garantire un’equa distribuzione del carico fiscale sulle corporations multinazionali (che si accompagna a un utilizzo di queste risorse per un rilancio del sistema di welfare e di investimenti pubblici negli Stati Uniti). Da questo punto di vista, l’idea di un finanziamento del fondo globale di 100 miliardi di dollari, per sostenere i paesi più deboli nella lotta ai cambiamenti climatici, fondato sull’eccesso di emissioni rispetto a uno standard medio fissato a livello mondiale, è corretta e costituisce un primo importante passo per sviluppare un sistema di finanziamento dei beni pubblici globali che realizzi un principio di progressività nella distribuzione degli oneri.
Ma questa proposta, pur apprezzabile, non è sufficiente. Distribuire risorse ai paesi più deboli con incentivi finanziati dai paesi più ricchi e responsabili di un livello più elevato di emissioni, è giusto da un punto di vista etico e politico, ma non è in grado di garantire il raggiungimento dell’obiettivo della neutralità carbonio entro la metà di questo secolo. I fondi, infatti, verrebbero distribuiti ai governi, i quali a loro volta dovrebbero mettere in atto le politiche necessarie per garantire i processi di energy saving e di fuel switching che possano portare a una riduzione effettiva delle emissioni. Lo strumento più efficiente per raggiungere questo obiettivo è l’introduzione di un carbon price, e in questa prospettiva l’Unione europea può esercitare un ruolo decisivo per completare il processo di carbon pricing, da un lato con un’estensione a tutti i settori dell’ETS (Emissions Trading System) o di meccanismi analoghi che assicurino il pagamento di un prezzo da parte di chi utilizza combustibili fossili e, d’altro lato, con l’introduzione di un meccanismo di border carbon adjustment per far pagare il carbon price anche sulle merci importate in provenienza da paesi che non lo abbiano ancora introdotto. Le entrate derivanti dall’imposizione di un carbon price dovranno poi essere utilizzate per sostenere la produzione di energie rinnovabili, ma soprattutto per garantire che la transizione ecologica sia accompagnata da misure di equità sociale, riducendo l’onere dell’imposizione sulle classi sociali più deboli.
Questo meccanismo di aggiustamento fiscale alla frontiera può rappresentare la leva per avviare una politica globale di fissazione di un prezzo sul carbonio contenuto nei combustibili fossili, in quanto i paesi esportatori non potrebbero godere di un vantaggio competitivo nei confronti delle imprese europee gravate dal carbon price imposto dall’Unione e, al contempo, non potrebbero godere di un’entrata fiscale – corrispondente al prezzo sul carbonio –, che verrebbe invece destinata alle casse dell’Unione. Ma questo meccanismo di stick and carrot, fondato sul bastone rappresentato dall’imposizione di un diritto compensativo alla frontiera, dovrebbe essere accompagnato dalla carota rappresentata dal fondo proposto da Rajan per compensare i paesi economicamente più deboli e garantire così un fair burden sharing dell’onere complessivo della politica di riduzione delle emissioni di CO2. L’idea di Rajan di un fondo comune di incentivi combinata con l’introduzione di un carbon price generalizzato – accompagnato dalla fissazione a livello multilaterale di un prezzo minimo dei combustibili fossili, per evitare che gli investimenti in energia rinnovabile vengano messi in pericolo da una politica di dumping messa in atto dai paesi che producono combustibili fossili – può rappresentare il policy mix ottimale per combattere efficacemente e con equità i rischi di cambiamenti climatici.
*Professore Emerito di Scienza delle Finanze all’Università di Pavia e Vice Presidente del Centro Studi sul Federalismo