Andrea Cofelice
Commento n. 210 - 15 febbraio 2021
Il futuro delle relazioni tra Unione Europea (UE) e il gruppo di paesi di Africa, Caraibi e Pacifico (ACP) sta finalmente prendendo forma. Dopo oltre due anni di serrate trattative, lo scorso dicembre i negoziatori delle due parti hanno raggiunto un’intesa politica su un nuovo accordo di partenariato che, una volta entrato in vigore, andrà a sostituire il Trattato di Cotonou, adottato nel lontano 2000. Con l’avvicinarsi della scadenza giuridica del Trattato (prevista inizialmente nel febbraio 2020 e successivamente posticipata al novembre 2021), si era sempre più diffusa, a livello politico, l’esigenza di ripensare e rilanciare il partenariato ACP-UE, per adattarlo ai mutamenti del sistema internazionale e ai nuovi interessi e alle legittime aspirazioni dei due blocchi di paesi.
Il partenariato ACP-UE è stato spesso descritto come un accordo “unico”, grazie alla concomitanza di vari fattori: la natura giuridicamente vincolante; l’ampia portata geografica (quattro continenti coinvolti e circa 1,5 miliardi di persone rappresentate) e tematica (una struttura “a tre pilastri”: dialogo politico, cooperazione economica e commerciale, aiuti allo sviluppo); una modalità di gestione e un’infrastruttura istituzionale congiunta; un flusso di risorse costante e prevedibile da parte dell’UE, veicolato soprattutto attraverso il Fondo europeo di sviluppo (intergovernativo: è stato lo strumento di aiuto allo sviluppo più consistente rispetto a qualsiasi altro strumento esterno dell’UE) e la Banca europea per gli investimenti. Tuttavia, i mutamenti del sistema internazionale occorsi negli ultimi vent’anni (l’affermarsi di nuove realtà geopolitiche “concorrenti”; lo sviluppo dei processi di regionalizzazione, soprattutto in Africa e nei Caraibi; le conseguenze dell’allargamento dell’UE, per cui oggi la maggior parte degli stati membri non ha significativi legami storici con i paesi ACP) hanno avuto un profondo impatto sulla sua stessa natura.
In primo luogo, hanno contribuito a una graduale marginalizzazione del rapporto privilegiato tra ACP e UE, a favore di altre organizzazioni regionali (su tutte, l’Unione Africana – UA). Di conseguenza, il Trattato di Cotonou è stato gradualmente affiancato da strategie continentali parallele (come la Strategia globale con l’Africa) e da un numero crescente di partenariati strategici regionali e bilaterali, che pongono importanti sfide di coordinamento e coerenza.
In secondo luogo, hanno determinato l’erosione della struttura a tre pilastri. Le disposizioni relative al dialogo politico (incluse le condizionalità: artt. 8 e 96-97 del Trattato di Cotonou) hanno da sempre trovato una difficile attuazione, a causa di rapporti di potere sbilanciati, incoerenze operative e un generale disaccordo sui valori e gli obiettivi alla base del partenariato (si considerino, ad esempio, le tensioni sulla partecipazione della società civile, sulla gestione delle migrazioni, sul ruolo della Corte penale internazionale). A fronte di tali difficoltà, il dialogo politico è stato di fatto “regionalizzato” (ad esempio nei confronti dell’UA) o si è svolto bilateralmente, con un’influenza limitata da parte del gruppo ACP. Similmente, il sistema preferenziale commerciale che avrebbe dovuto sorreggere il partenariato si è evoluto, soprattutto per volontà europea, in una serie di autonomi accordi internazionali stipulati su base regionale, noti come Accordi di partenariato economico, le cui modalità di negoziazione hanno messo a dura prova le relazioni ACP-UE. Di conseguenza, poiché le componenti del dialogo commerciale e politico sono state spinte al di fuori del quadro complessivo ACP-UE, negli ultimi anni il partenariato è stato trasformato in uno strumento privilegiato di cooperazione allo sviluppo, ambito nel quale sono stati raggiunti i risultati più significativi (soprattutto in termini di riduzione della povertà).
Infine, il potenziale politico “globale” del partenariato è rimasto largamente inespresso. In teoria, i 27 stati membri dell’UE e i 79 paesi ACP costituirebbero una forza sostanziale nelle sedi multilaterali, rappresentando più della metà dei seggi delle Nazioni Unite. In pratica, tuttavia, sono pochi i casi in cui i due gruppi hanno unito le forze per porsi alla guida di processi di cambiamento nell’ambito di negoziati internazionali.
L’accordo politico dello scorso dicembre cerca di affrontare tali sfide, introducendo importanti novità che caratterizzeranno il nuovo assetto delle relazioni ACP-UE nel post-Cotonou. Sono stati anzitutto salvaguardati la natura giuridica unica del partenariato, che sancisce priorità e valori condivisi, ed il quadro istituzionale congiunto. Allo stesso tempo, su impulso europeo, è stata promossa una più esplicita differenziazione regionale, attraverso l’adozione di tre distinti protocolli che fissano obiettivi, strategie e sistemi di governance specifici per ciascuna delle tre regioni del gruppo ACP: dunque, una formula ibrida “3 (partenariati) in 1”.
Inoltre, il nuovo accordo individua sei aree tematiche prioritarie, sostanzialmente coincidenti con le proposte formulate dall’UE nella recente Strategia globale con l’Africa. Sul piano del dialogo politico, si tratta di rivitalizzare alcuni temi già presenti nel regime di Cotonou: diritti umani, democrazia e governance; pace e sicurezza; sviluppo umano e sociale. Al contrario, la liberalizzazione del commercio, vero pilastro delle Convenzioni di Lomè (che tra il 1975 e il 2000 hanno regolato il partenariato), sembra passata in secondo piano, assorbita dal più generale tema del contributo del commercio ad una crescita economica inclusiva e sostenibile. Gli Accordi di partenariato economico rimarranno comunque in vigore, nonostante le criticità manifestate soprattutto dai partner africani. L’impronta europea risulta inoltre evidente per l’enfasi data a due nuove priorità: sostenibilità ambientale, che include transizione verde e lotta ai cambiamenti climatici, e migrazioni e mobilità, tema quest’ultimo molto sensibile su cui si dovrà cercare un punto di incontro tra l’agenda europea (che punta alla stipula di accordi di rimpatrio e alla responsabilizzazione dei paesi partner nella gestione dei flussi migratori irregolari) e quella dei paesi ACP, le cui priorità sono l’apertura di canali migratori regolari e l’agevolazione delle rimesse. Su questi temi, il nuovo accordo cercherà di promuovere una maggiore cooperazione nelle sedi internazionali e la costruzione di alleanze globali tra i due blocchi di paesi.
Un ultimo elemento di novità riguarda il tema delle risorse finanziarie destinate a garantire l’implementazione dell’accordo. Il Fondo europeo di sviluppo sarà infatti assorbito dal nuovo Strumento per il vicinato, lo sviluppo e la cooperazione internazionale: in tal modo, il principale strumento di cooperazione allo sviluppo con i paesi ACP sarà, per la prima volta, sottratto all’ambito puramente intergovernativo e inserito all’interno del quadro finanziario pluriennale dell’Unione per il periodo 2021-2027 (con uno stanziamento di 70,8 miliardi di euro), dando maggior peso decisionale agli organi comunitari (incluso il Parlamento europeo).
Il nuovo testo andrà ora ratificato da entrambe le parti prima di entrare in vigore nel corso del 2021. In ambito europeo, sarà richiesta l’approvazione del Consiglio, sulla base di una proposta della Commissione, a seguito dell’approvazione del Parlamento europeo, che ha ottenuto il mantenimento dell’Assemblea parlamentare congiunta ACP-UE, ponendola come condizione non negoziabile per il proprio assenso. Inizierà quindi il processo di implementazione: una sfida complessa che richiederà, per avere successo, ingenti investimenti in termini di creatività, disponibilità al dialogo e capitale politico. Solo in questo modo sarà possibile dare forma a un partenariato reciprocamente vantaggioso, adatto ad affrontare le priorità dell’agenda di sviluppo globale dei prossimi decenni.
*Mario Albertini Fellow del Centro Studi sul Federalismo (articolo pubblicato il 12 febbraio scorso da Europea, la piattaforma dei think tank su Euractiv.it)