Rapporto Draghi: si scrive competitività, si legge politica

Rapporto Draghi: si scrive competitività, si legge politica

Olimpia Fontana e Simone Vannuccini / 20 Settembre 2024

Commento n. 305

Il tanto atteso rapporto “Il futuro della competitività europea”, redatto da Mario Draghi, è allo stesso tempo una vasta raccolta di fatti stilizzati sulla posizione dell’Unione Europea (UE) nello scenario globale, un repertorio di strumenti di policy e raccomandazioni e una visione sul futuro dell’Unione e sui cambiamenti di governance necessari per raggiungerlo. Se il rapporto diventerà il vademecum che guiderà la politica europea nel prossimo ciclo politico, o rimarrà l’ennesimo esercizio accademico rapidamente dimenticato, sarà presto chiaro. In ogni caso, le questioni trattate nel rapporto sono cruciali, e il dibattito che è seguito alla sua pubblicazione dimostra che una seria riflessione sulla natura dell’UE è imprescindibile.

Nel suo discorso di presentazione del rapporto, Draghi ha esortato gli Stati membri e le istituzioni dell’UE ad agire con “urgenza e concretezza” per evitare quella che altrimenti sarà una “lenta agonia”. Il contesto globale rende necessario pensare alla competitività non più in termini di singoli paesi, come durante la crisi dell’euro, e di svalutazioni interne, ma come una sfida che riguarda l’UE nel suo complesso nel confronto con Stati Uniti e Cina. La perdita di competitività viene in parte da un rallentamento della crescita della produttività in Europa, che ha cause strutturali.

In un contesto caratterizzato da una crescita lenta della produttività, dall’urgenza di portare avanti la transizione ecologica e da instabilità geopolitica, il rapporto offre delle indispensabili linee guida. In primo luogo, accelerare le innovazioni scientifiche e tecnologiche per colmare il divario tecnologico ampliatosi dagli anni ‘90. In secondo luogo, articolare un piano di decarbonizzazione che permetta all’UE di produrre autonomamente le tecnologie pulite necessarie, punto che riflette il dibattito in corso su autonomia strategica e sovranità tecnologica. In terzo luogo, dopo anni di globalizzazione, l’UE dovrà sviluppare una propria “politica economica estera” per ridurre dipendenze potenzialmente pericolose e garantire la propria sicurezza. Il rapporto evidenzia una diffusa mancanza di coordinamento su più fronti: tra Stati membri, strumenti finanziari e politiche europee, che spesso porta a sovrapposizioni e inefficienze. Ciò deriva anche dalla complessa struttura di governance dell’UE e dal suo processo decisionale lento e frammentato, che impedisce all’Unione di rispondere in modo adeguato alle sfide.

L’argomento centrale del rapporto è che, piuttosto che di riallocazione di risorse all’interno del bilancio esistente (e cioè di politiche budget neutral), l’UE ha bisogno di una iniezione di investimenti addizionali pari a 750-800 miliardi di euro all’anno. Tale ammontare rappresenta il 4,4%-4,7% del PIL dell’UE e riflette la natura esistenziale delle sfide che l’Unione deve affrontare, così come la profonda connessione tra politiche e politica: dato il margine molto limitato per spese aggiuntive nei bilanci nazionali, non possono più essere rimandate decisioni sulle risorse proprie dell’Unione e sui cambiamenti nella sua struttura istituzionale – incluse cessioni di sovranità – necessari per generare e gestire queste risorse.

Il rapporto offre un’analisi sistemica e propone soluzioni concrete. Sottolinea la necessità di sfruttare economie di scala e di creare "campioni europei" attraverso il consolidamento di attori chiave in diversi mercati, come quello delle telecomunicazioni. Queste proposte sembrano un elenco di desiderata degli attori industriali, non sono necessariamente in linea con l’approccio del rapporto Letta sul Mercato Unico, e hanno giustamente incontrato un certo scetticismo, data la schiacciante evidenza delle perdite di benessere associate alla monopolizzazione privata dei mercati delle infrastrutture. Tuttavia, il documento ha il merito di chiarire i termini del dibattito. Infatti, il rapporto pone molta enfasi sulla necessità di bilanciare il funzionamento senza attriti del mercato e gli interventi e investimenti governativi, evitando nel contempo rincorse nazionalistiche per sostenere le economie domestiche a scapito della dimensione europea. Una via d’uscita da questa tensione è pensare agli aiuti di Stato in termini continentali. Secondo il rapporto, gli aiuti di Stato dovrebbero essere gradualmente trasferiti dal livello nazionale a quello europeo, per consentire gli investimenti necessari a rafforzare la competitività europea e il processo di decarbonizzazione. Un rilevante percorso suggerito è quello di sfruttare lo strumento esistente degli Important Projects of Common European Interest (IPCEI).

Dal 2014, la Commissione Europea ha incoraggiato gli Stati membri a sviluppare progetti collaborativi paneuropei, che promuovano interessi comuni europei. In tal modo, l’UE ha permesso politiche industriali verticali sfruttando le disposizioni dei Trattati sugli aiuti di Stato (art. 107 TFUE). Gli aiuti di Stato sono consentiti se, tra le altre cose, contribuiscono a finanziare progetti con obiettivi strategici per l’UE che siano altamente ambiziosi in termini di ricerca e innovazione. Gli IPCEI sono emersi come uno strumento utile per gli Stati membri per finanziare progetti di politica industriale allineati con le priorità europee. Nel settore della microelettronica, per esempio, gli IPCEI hanno sostenuto la creazione di una serie di risorse tangibili e intangibili i cui benefici saranno condivisi su una base open access, oltre le imprese partecipanti, e si prevede che stimolino l’accumulo di conoscenze e rafforzino la catena del valore della microelettronica europea. Il pacchetto NextGenerationEU (NGEU) ha previsto parte dei finanziamenti per gli IPCEI a livello europeo grazie alla Recovery and Resilient Facility, ma per ora gli IPCEI si basano principalmente su finanziamenti e partecipazione nazionali. In questo contesto, alcuni paesi non sono ancora in grado di partecipare non solo per mancanza di capacità fiscale, ma anche di expertise burocratica e di un ecosistema imprenditoriale adeguato.

Il rapporto Draghi sostiene fortemente gli IPCEI – il cui utilizzo è raccomandato in quasi tutti i settori trattati nel documento. In particolare, suggerisce di accelerare e ampliare gli IPCEI oltre le tecnologie più dirompenti attraverso un nuovo strumento chiamato “Competitivenss IPCEI”, rendendo disponibili fondi dell’UE per questi progetti. Una “europeizzazione” degli IPCEI è qualcosa che abbiamo proposto recentemente come strategia fattibile per istituzionalizzare la politica industriale quale strumento permanente a livello dell’Unione. L’UE dovrebbe continuare – basandosi sul modello di NGEU – a emettere strumenti di debito comune per finanziare progetti di investimento europei. Come ha spiegato Draghi nella sua conferenza stampa, un titolo di debito europeo non è un obiettivo in sé, ma è funzionale (e vitale) per affrontare sfide esistenziali.

Il rapporto è un grande esercizio di raccolta e proposta di strumenti per le politiche tecnologiche, antitrust e industriale (la parte B del rapporto offre analisi e raccomandazioni per tecnologie e settori che vanno dall’intelligenza artificiale all’energia, dall’auto alla difesa). Tuttavia, la sua importanza è principalmente politica, poiché fornisce una base tecnica per le linee guida politiche della nuova Commissione e sottolinea con forza le due priorità chiave e complementari per l’UE: spendere meglio e spendere di più. La necessità di risorse aggiuntive per gli investimenti non è solo una questione di riduzione dei gap di produttività e innovazione; è una questione di sopravvivenza del Vecchio Continente come lo conosciamo. Draghi ha inquadrato la sfida come un trilemma: “senza azione dovremo rinunciare al nostro benessere, al nostro ambiente, o alla nostra libertà”. Risolvere le tensioni tra la necessità di una UE più “interventista” e il rischio che l’Unione si trasformi in una somma di nazioni più assertive (nazionaliste) e meno aperte sarà il compito per i prossimi anni. Il rapporto ha chiarito che rimandare ulteriormente la questione non può che ridurre la nostra capacità, come europei, di plasmare il nostro destino

*Olimpia Fontana è Mario Albertini Fellow del Centro Studi sul Federalismo e Research Fellow all’Università Cattolica del Sacro Cuore; Simone Vannuccini è Professore di Economia dell’Intelligenza Artificiale e dell’Innovazione alla Université Côte d’Azur (Nizza)

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