Risorse europee o contributi nazionali: una sfida per l'Europa

Alberto Majocchi
Commento n. 131 - 29 agosto 2018

Nel secondo Atto della celebre tragedia di Shakespeare, Polonio afferma, a proposito delle risposte sconclusionate di Amleto: ”though this be madness, yet there is method in’t” (“c’è della logica in questa follia”). Una valutazione analoga si può ripetere a proposito delle affermazioni del Ministro Di Maio, secondo cui, qualora non fossero emerse risposte positive dall’Europa a proposito della ricollocazione dei migranti eritrei tenuti a lungo in ostaggio a bordo della nave Diciotti, l’Italia avrebbe cessato di versare i contributi dovuti all’Unione europea. E questa posizione è stata poi ribadita dal Ministro Salvini quando ha annunciato finalmente la liberazione degli eritrei trattenuti illegalmente a bordo di una nave militare italiana.

In realtà, dopo che il Ministro degli Esteri Moavero Milanesi ha ricordato che versare i contributi a Bruxelles non è un optional, ma un preciso dovere giuridico, con le inevitabili conseguenze nel caso che questi doveri non venissero adempiuti, i due Ministri e il Presidente del Consiglio hanno un po’ corretto il tiro, minacciando che il governo italiano non approverà il Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) 2021-2027, se in futuro non verranno prese in considerazione le richieste di una ricollocazione all’interno dell’Unione dei migranti approdati in Italia.

L’obiettivo evidente è di esercitare una pressione sulla Commissione al fine di scambiare un voto favorevole al QFP con una maggiore flessibilità quando si tratterà di approvare in Italia la legge di bilancio. Ma questa posizione del governo Conte – al di là degli aspetti strumentali – mette altresì in discussione il metodo di finanziamento del bilancio dell’Unione. L’esperienza di questi anni travagliati ha infatti mostrato con chiarezza due fatti fondamentali. In primo luogo, le dimensioni del bilancio europeo non sono sufficienti per far fronte alle sfide con cui l’Unione si deve confrontare: sicurezza interna ed esterna, promozione di un modello di sviluppo carbon free, investimenti per favorire la transizione a un’economia digitale, sostenendo la competitività della produzione europea attraverso finanziamenti alla ricerca e garantendo un’occupazione dignitosa soprattutto alle nuove generazioni, produzione di beni pubblici per migliorare la qualità della vita dei cittadini – anche attraverso riforme dei sistemi di welfare per tener conto dell’allungamento della speranza di vita, dei mutamenti strutturali del mercato del lavoro e dell’evoluzione tecnologica nel settore sanitario –, sostegno alle start up innovative nel settore del tempo libero, della produzione artistica e della conservazione dei beni culturali e naturali, dotazioni finanziarie adeguate per un Fondo Europeo di Stabilizzazione capace di far fronte in futuro a shock – generali o asimmetrici – che colpiscano l’Unione.

Ma è altrettanto importante rilevare che, fino a quando l’Unione dipenderà per il finanziamento del bilancio da contributi versati dai Paesi membri, rimarrà esposta a ogni sorta di ricatto e le decisioni europee saranno deboli, in ritardo sulle esigenze da soddisfare e saranno comunque valutate sulla base del principio – che viola i principi di equità distributiva – del “giusto ritorno”. Se l’Unione vorrà sviluppare una politica autonoma, definita con procedure democratiche, ossia con un voto a maggioranza, nel Parlamento europeo e nel Consiglio, nell’interesse dell’insieme dei cittadini europei, dovrà invece dotarsi finalmente di effettive risorse proprie.

Il comportamento irresponsabile del governo italiano ha di fatto aperto la campagna in vista delle prossime elezioni europee, mettendo in campo una questione fondamentale per il futuro dell’Unione. In termini chiari: se il bilancio europeo continuerà a essere finanziato solo da contributi nazionali, l’Unione rimarrà paralizzata e incapace di fornire i beni pubblici necessari per garantire un futuro di pace e di benessere per i cittadini europei. L’alternativa da proporre e sostenere con forza da parte dei partiti europeisti consiste nell’avanzamento del processo, avviato con il Rapporto della Commissione Monti e con le proposte sostenute dagli organismi europei – Parlamento e Commissione –, che mira a introdurre reali risorse proprie per finanziare il bilancio.

Il sasso nello stagno è stato lanciato dal Presidente Macron che, nel suo noto intervento a La Sorbonne, ha proposto, accanto a una tassa sulle transazioni finanziarie, a una tassa sulle imprese digitali e a un prelievo su una base imponibile unificata delle società europee, una carbon tax europea, assistita da un prelievo di livello equivalente sulle importazioni che provengano da paesi dove non esistano condizioni analoghe di carbon pricing, al fine di garantire un level playing field ed evitare così una perdita di competitività dell’economia europea. Con un’aliquota di €50/tCO2, che è stata suggerita dalla High-Level Commission on Carbon Prices presieduta da Stiglitz e Stern, il gettito della carbon tax si aggirerebbe intorno a 111 miliardi di euro, con un aumento indotto sul prezzo di un litro di benzina pari soltanto a €0,11. Altri 24 miliardi potrebbero arrivare dai diritti compensativi riscossi alla frontiera e 15-20 miliardi dalla vendita all’asta dei permessi negoziabili nell’ambito dell’Emission Trading System, come suggerito dalla Commissione Monti. Il gettito totale potrebbe quindi raggiungere circa 150 miliardi di euro, consentendo così di raddoppiare le dimensioni attuali del bilancio.

Questa proposta deve rappresentare il presupposto per una riforma in profondità della struttura attuale dell’Unione, e in particolare dell’eurozona. Nella lunga crisi iniziata nel 2008 la capacità di intervento degli organi dell’Unione si è mostrata del tutto inadeguata e l’uscita della crisi è stata resa possibile dalla politica monetaria avviata – sotto l’impulso di Mario Draghi – dalla BCE, un organo di natura federale e, quindi, capace di prendere decisioni anche contro la volontà dei Paesi più forti. L’Unione oggi deve confrontarsi con nuovi problemi, e non solo con il controllo delle migrazioni, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini europei. E la soluzione di questi nuovi problemi richiede inevitabilmente la disponibilità di maggiori risorse finanziarie.

Alla minaccia dei partiti sovranisti, che vogliono sfruttare la carta del ricatto di un mancato versamento dei contributi nazionali dovuti all’Unione o di una mancata approvazione del QFP, occorre quindi contrapporre un piano che preveda un’evoluzione progressiva dell’Unione – a partire necessariamente dall’eurozona – verso una struttura di tipo federale, iniziando con l’attribuzione di vere risorse proprie al bilancio europeo e con il varo delle nuove politiche che devono essere messe in campo per rispondere alle sfide cui l’Europa si trova di fronte.

La campagna per le prossime elezioni europee è stata avviata da Salvini, a sostegno delle posizioni sovraniste. Una prima risposta è venuta dalla Cancelliera Merkel che ha ipotizzato una rinuncia tedesca alla guida della BCE per puntare alla Presidenza della Commissione. E questa risposta tedesca ha chiarito perfettamente che la posta in gioco nelle prossime elezioni ha natura politica, e riguarda la linea di sviluppo del processo di unificazione europea. A uno schieramento sovranista, che si va già delineando, occorre che si contrapponga rapidamente uno schieramento federalista, con chiarezza di proposte e il coinvolgimento di tutte le forze democratiche e progressiste che oggi annaspano in crisi nei diversi Paesi europei.

* Professore Emerito di Scienza delle Finanze all'Università di Pavia, Vice Presidente del Centro Studi sul Federalismo

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