Olimpia Fontana
Commento n. 195 - 12 ottobre 2020
Le “Linee Guida per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (PNRR) che l’Italia dovrebbe presentare nei prossimi mesi alla Commissione europea come condizione all’utilizzo del Recovery Fund, descrivono un contesto economico e sociale poco incoraggiante. Da circa vent’anni il paese soffre di un’insufficiente crescita economica, con un basso aumento di produttività, nettamente inferiore alla media dei paesi avanzati. Ciò viene in parte attribuito a ritardi tecnologici ed educativi: la spesa per ricerca e sviluppo (1,35% del Pil nel 2017) è inferiore alla media Ue (2,06% del Pil); i risultati scolastici così come la quota di popolazione in possesso di un titolo di studio terziario sono inferiori alla media (quota di laureati 27,6% contro 41,3% nell’Ue); l’incidenza dell’abbandono scolastico si attesta a 13,5% (contro il 10,6% dell’Ue). Come conseguenza, il tasso di partecipazione al lavoro e il tasso di occupazione dell’Italia sono tra i più bassi, soprattutto per la popolazione femminile e giovanile. Queste tendenze educative hanno effetti anche sulle dinamiche demografiche: il tasso di fecondità è sceso fortemente dagli anni Settanta in poi, registrando un dato agli ultimi posti nella classifica europea.
Il caso italiano è rappresentativo di una situazione più generale che riguarda altri paesi in Europa, in cui due aspetti risultano cruciali per il futuro: l’invecchiamento della popolazione e l’accumulazione di capitale umano. Da una parte, la dinamica demografica influirà sulla sostenibilità di lungo termine delle finanze pubbliche: le proiezioni demografiche dei prossimi decenni dipingono un’Europa in cui un terzo dei cittadini avrà più di 65 anni, quando meno del 60% della popolazione sarà in età lavorativa. Dall’altra, la condizione del capitale umano pone sfide sulle capacità di crescita, in termini di posti di lavoro e di aumenti della produttività. Purtroppo, la pandemia è stata particolarmente deleteria da questo punto di vista. Secondo stime riportate dall’Ocse riguardo l’impatto economico a lungo termine derivante dalla chiusura delle scuole per circa un terzo dell’anno, la perdita di competenze porterà a una diminuzione della produttività delle persone, col risultato che il Pil potrebbe essere in media inferiore dell'1,5% per il resto del secolo, senza considerare la possibilità di nuove chiusure.
La gestione della pandemia ha esacerbato l’impatto di queste dinamiche sulle finanze pubbliche. Gli interventi a livello nazionale dei paesi membri hanno necessariamente comportato un aumento di spesa, con conseguenti picchi nei livelli di debito pubblico. Infatti, sin dall’inizio della crisi, la Commissione ha dato il benestare ai governi nazionali per intervenire massicciamente nelle loro economie attivando la clausola di sospensione del Patto di stabilità e crescita e allentando la disciplina sugli aiuti di Stato, mentre a livello europeo è in corso l’iter per approvare il Recovery Fund, in cui parte delle misure di supporto saranno elargite in forma di prestiti.
Mario Draghi, nel suo recente intervento al Meeting di Rimini, ha osservato: “Vi è un settore, essenziale per la crescita (…), dove la visione di lungo periodo deve sposarsi con l’azione immediata: l’istruzione e, più in generale, l’investimento nei giovani. Questo è stato sempre vero ma la situazione presente rende imperativo e urgente un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie in questo settore (…) Ma c’è anche una ragione morale che deve spingerci a questa scelta e a farlo bene: il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani. È nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo pur vivendo in società migliori delle nostre.”. Le parole dell’ex Presidente della Bce ci ricordano che il debito di un paese viene percepito stabile non solo grazie a un contesto come quello attuale di bassi tassi di interesse, ma anche sulla base di come tale debito viene speso.
Sarà quindi fondamentale fornire ai giovani livelli di istruzione e formazione, oltre che competenze tecnologiche, tali da aumentare la loro resilienza verso i cambiamenti dell’era digitale e disporre di una condizione economica in grado di sostenere il peso del debito in modo da non compromettere (ulteriormente) la spesa sociale. Ricordiamo che la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, nel suo recente “Discorso sullo stato dell’Unione 2020”, ha annunciato che il 20% delle risorse di Next Generation EU dovrà essere destinato alla transizione digitale.
Di fronte a questi rischi appare quindi fondamentale investire in capitale umano, adottando un approccio proattivo capace di fornire competenze, non solo di tipo tecnico, ma anche cognitivo, emotivo e sociale soprattutto nei primi anni di vita. Secondo i sostenitori del social investment, politiche sociali che intervengono in una fase precoce dell’esistenza influenzeranno lo sviluppo futuro dell’individuo: numerosi studi mostrano che bambini che si trovano ad affrontare svantaggi in termini di istruzione, salute e ambiente di vita, tendono ad avere difficoltà per tutta la vita, fino a comprometterne i livelli di istruzione e di reddito futuri. Per quanto riguarda la fascia over 65, un innalzamento dell’età pensionabile andrebbe accompagnata da politiche di “invecchiamento attivo” (partecipazione, salute) che migliorano la qualità della vita delle persone che invecchiano.
Nel 2013 la Commissione europea ha lanciato il Social Investment Package, contenente indicazioni (non vincolanti) per i Paesi membri su come usare in modo più efficace la spesa sociale. Per esempio, per quanto riguarda l’istruzione e la cura nell’infanzia, servizi di buona qualità ed economicamente accessibili a tutti producono nel tempo un moltiplicatore sociale, con rendimenti in termini di opportunità di lavoro, uguaglianza di genere e riduzione della povertà intergenerazionale. Per i giovani disoccupati una formazione continua orientata alle competenze digitali allevierebbe il disallineamento tra le competenze possedute e quelle richieste dal mercato del lavoro. Infine, l’obiettivo di aumentare e migliorare il capitale umano passa anche attraverso la fornitura di adeguate infrastrutture sociali (asili nido, scuole, ospedali, case di riposo, strutture per la formazione professionale), i cui investimenti però sono stati particolarmente penalizzati a partire dalla crisi del 2008.
Il PNRR disposto dall’Italia recepisce alcune misure di social investment, con interventi infrastrutturali per innalzare la qualità degli ambienti di apprendimento (anche in ottica di efficienza energetica), politiche di lifelong-learning, misure rivolte alla parità di genere, con tuttavia poca attenzione ai servizi dedicati all’infanzia. Il Recovery Fund, nato per aiutare i paesi membri a uscire dalla crisi da Covid-19, può essere un’occasione preziosa anche per innescare un circolo virtuoso della spesa sociale, con un “patto di solidarietà fra generazioni” di fronte alle sfide future di nuove competenze richieste ai giovani, di invecchiamento della popolazione e di sostenibilità delle finanze pubbliche.
*Ricercatrice al Centro Studi sul Federalismo (pubblicato venerdì scorso da Europea, la piattaforma dei think tank su Euractiv.it)