Domenico Moro
Commento n. 275 - 27 settembre 2023
Lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nei mesi scorsi, ha pubblicato le cifre relative alle spese militari sostenute nel 2022: 2.240 miliardi di dollari (2.076 a valori costanti 2021 – così come per i dati successivi), un nuovo record, addirittura superiore ai 1.400 miliardi sostenuti nel 1986, l’anno in cui le tensioni tra URSS e USA avevano raggiunto il livello più elevato, e il doppio rispetto al livello più basso raggiunto nel post-Guerra fredda: 1.100 miliardi alla metà degli anni ’90. La risposta alla domanda del nostro titolo è di tre tipi: politica, economica e tecnologica.
La prima risposta è anche la più ovvia: le spese militari aumentano nei momenti di insicurezza e, più in generale, di instabilità nei rapporti internazionali. Nel primo caso, l’esempio più recente e drammatico è l’aggressione armata della Russia all’Ucraina, un paese in un’area geopoliticamente sensibile. Nel secondo caso, si tratta di un fatto strutturale, come lo è il declino della potenza mondiale, gli USA, che ha contribuito ad assicurare un minimo di ordine mondiale, e l’emergere della Cina e di altri paesi quali nuovi attori politici mondiali.
L’incremento delle spese tra il 1998 ed il 2022, a valori costanti 2021, e limitatamente ad alcune aree geografiche, è da imputarsi per: 40 miliardi all’Arabia Saudita e all’Ucraina, 55 miliardi all’India, 57 miliardi alla Russia, 60 miliardi all’Unione europea, 263 miliardi alla Cina e 328 miliardi agli USA. Queste sommarie indicazioni nascondono, però, due fatti che, sebbene connessi, vanno analizzati separatamente, perché delineano un quadro più critico di quanto non facciano le statistiche del SIPRI. Il primo è economico e il secondo è tecnologico.
La considerazione di carattere economico riguarda il fatto che il livello delle spese militari di alcuni paesi, come la Russia e la Cina, non tiene conto del loro effettivo potere d’acquisto, che è riflesso solo parzialmente dall’andamento dei prezzi e dei tassi di cambio correnti. L’International Institute for Strategic Studies (IISS) ha cercato di stimare quanto effettivamente spendono Russia e Cina nel settore militare, uguagliando il potere di acquisto dei paesi presi in considerazione. Il risultato è che Russia e Cina, per il 2022, spendono circa il doppio di quanto risulta dai dati ufficiali. La Russia spende circa 200 miliardi di dollari, invece di 86, e la Cina circa 500 miliardi, invece di 290. Pertanto, a livello globale ed a prezzi omogenei, le spese militari mondiali supererebbero i 2.500 miliardi di dollari (senza tenere conto di quanto spendono realmente le altre aree geografiche, qualora il metodo della parità di potere d’acquisto fosse applicato anche loro).
L’aumento delle spese militari non è, però, spiegabile solo con l’affacciarsi di nuovi protagonisti sulla scena politica mondiale, che rivendicano un maggior potere contrattuale nei confronti delle tradizionali potenze. Vi è un fatto strutturale che, assieme all’emergere di nuovi equilibri di potere a livello mondiale, è destinato a pesare ancora di più sul livello delle spese militari. Si tratta dell’incessante innovazione tecnologica estesa alle piattaforme militari, che, secondo l’ex-CEO della Lockheed Martin, Norman Augustine, conduce alla produzione di sistemi d’arma “technology intensive, high and rising unit costs, and declining volumes”.
Stabilire con precisione il costo unitario di una piattaforma militare non è semplice. Per avere almeno un’idea approssimativa dell’evoluzione del suo costo nel tempo, il punto di riferimento obbligato sono gli Stati Uniti che, con 877 miliardi di dollari (2022), sono il più grande mercato mondiale di sistemi d’arma e il più avanzato dal punto di vista tecnologico, con un elevato livello di standardizzazione degli armamenti. Quale esempio di piattaforme militari, si prende qui in considerazione l’evoluzione, nel tempo, del costo di un bombardiere strategico, di un velivolo multiruolo e di una portaerei, prodotti negli USA.
Per quanto riguarda il costo unitario di un bombardiere strategico, si possono prendere in esame i velivoli più significativi degli Stati Uniti, a partire dal noto B-52 (Boeing). Il costo ai valori attuali (2022) del B-52, prodotto a partire dagli anni ’50, viene stimato in circa 120 milioni di dollari; il bombardiere degli anni ‘90, il B-2 Spirit (Northrop Grumman), che inizialmente avrebbe dovuto avere un costo unitario di 500 milioni di dollari, lo ha visto salire a 700 milioni di dollari, e le valutazioni più recenti indicano un costo unitario di un miliardo di dollari. Quest’ultimo velivolo è destinato ad essere sostituito, a partire dal 2030, dal B-21 Raider (Northrop Grumman), il cui costo unitario previsto è di circa 750 milioni di dollari.
Una tendenza analoga si può riscontrare per i velivoli multiruolo, come l’F/A-18, l’F-22 e l’F-35. Si tratta di velivoli entrati in servizio in un arco temporale pluridecennale e i cui costi unitari variano sensibilmente in funzione delle diverse versioni e allestimenti. I costi assoluti, a valori correnti, vanno quindi considerati come indicatori di una tendenza. Tenuta presente questa premessa, e in base a fonti ufficiali USA, il costo unitario di un F/A-18 (Boeing), degli anni ’80, è pari a 67 milioni di dollari; il costo unitario dell’F-22 (Lockheed Martin), primi anni 2000, inizialmente previsto in 125 milioni di dollari, è stato poi rivisto e portato a 361 milioni; il costo unitario dell’F-35 (Lockheed Martin) risulta pari a 160 milioni.
Le altre componenti delle forze armate americane, come la US Navy, non si sottraggono alla stessa tendenza. Le portaerei della classe “Nimitz”, che risalgono agli anni ’70 e attualmente in corso di sostituzione, avevano un costo unitario di circa 5 miliardi di dollari (valori costanti 2020). Le moderne portaerei della classe “Gerald Ford” hanno un costo unitario di 13 miliardi di dollari (2020), esclusi i costi di R&D, che sono pari a 4,7 miliardi di dollari.
Nel quadro di un’accesa competizione tecnologica tra vecchie e nuove potenze mondiali, della crescente instabilità politica mondiale, della militarizzazione dello spazio e del previsto (e allarmante) impiego dell’intelligenza artificiale nel settore militare, sembra facile prevedere che le spese militari continueranno ad aumentare. Come si può provare a invertire la tendenza? Tenuto conto della tragica esperienza storica europea, l’attuale multipolarismo, senza il parallelo rafforzamento del multilateralismo, può essere l’avvisaglia di un esito infausto. Solo il rafforzamento delle istituzioni multilaterali esistenti e l’istituzione di nuove istituzioni nel settore della sicurezza collettiva potrebbero porre fine alla corsa agli armamenti. L’orizzonte temporale a disposizione non sembra infinito. Esso durerà fino a quando la Cina (e le altre potenze emergenti) non metteranno in discussione le istituzioni mondiali esistenti. L’istituzione del gruppo dei BRICS, e la sua estensione a nuovi membri, per quanto il suo funzionamento sia problematico, è il segnale che il tempo a disposizione si sta esaurendo.
*Membro del Consiglio Direttivo e Coordinatore dell’Area Sicurezza e Difesa del Centro Studi sul Federalismo
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