Flavio Brugnoli
Commento n. 151 - 23 maggio 2019
L’elezione di Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione europea, nel 2014, sarà ricordata anche per essere scaturita dall’introduzione degli Spitzenkandidaten, con i principali partiti politici che si presentarono alle elezioni europee indicando il loro "candidato capolista" per la guida della Commissione. A pochi giorni dal voto per il nuovo Parlamento europeo è utile riflettere sulle dinamiche politiche e istituzionali che ha messo in moto quella scelta e sulle sue prospettive future.
In base al Trattato di Lisbona (art. 17.7), spetta ai capi di Stato e di governo, nel Consiglio europeo, proporre – a maggioranza qualificata – al Parlamento un candidato presidente della Commissione, "tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate". Il candidato deve essere "eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono". Non tutti – incluso qualche capo di governo nel 2014 – hanno colto appieno la portata di questo "voto di fiducia" da parte del Parlamento.
Anche nel 2014, come più volte nella storia dell’integrazione europea, abbiamo visto che la volontà politica può dare nuova linfa e nuove direzioni ai processi istituzionali. Ci si è interrogati se il ricorso agli Spitzenkandidaten sia stata una forzatura da parte delle forze politiche europee a danno dei governi, o se abbia favorito una "parlamentarizzazione" dei rapporti istituzionali nell’Ue. Ci si è chiesti se abbia favorito una "politicizzazione" della Commissione, o se questa ne potesse incrinare la funzione di tutela dell’"interesse generale" dell’Unione, o se in realtà un "ruolo politico" di un’istituzione come la Commissione sia semplicemente inevitabile.
Gli Spitzenkandidaten erano stati anche pensati come una via per personalizzare la campagna elettorale e aumentare la partecipazione al voto europeo. Un auspicio disatteso nelle urne, nel 2014. Ma quella andrebbe piuttosto interpretata come una sorta di prova generale, in vista del voto nel 2019, quando tutte le parti in causa avranno chiare la sfida e le nuove regole del gioco. In altre parole, quando si avrà la consapevolezza che esiste un "potere europeo" contendibile, in un confronto democratico tra idee anche molto diverse del futuro dell’integrazione.
Ma l’approdo agli Spitzenkandidaten, nel 2014, non avviene all’improvviso. Anzitutto, nulla di tutto questo sarebbe stato immaginabile senza l’elezione diretta del Parlamento europeo, dal maggio 1979, quarant’anni fa. È poi nel 1992, con il Trattato di Maastricht, che il mandato della Commissione passa da quattro a cinque anni, in linea con quello del Parlamento. E nel marzo 2018 il Parlamento europeo sottolinea finalmente che va portato da sette a cinque anni anche l’arco temporale coperto dal Quadro finanziario pluriennale dell’Ue.
Già nel 2009, in vista delle elezioni europee, il Partito popolare europeo aveva candidato José Barroso alla riconferma alla carica di presidente della Commissione. Il Partito socialista europeo non fu allora in grado di indicare un/a candidato/a, tanto che i capi di governo socialisti di Spagna e Portogallo si schierarono per Barroso. Quella nuova dinamica fu incoraggiata anche con un appello, promosso da Tommaso Padoa-Schioppa (col sostegno del Centro Studi sul Federalismo e di altri quattro istituti europei), ai partiti politici e ai candidati per "prendere l’iniziativa nella scelta della nuova Commissione, del suo Presidente, dei suoi programmi". Un appello firmato anche da personalità quali Carlo Azeglio Ciampi, Jacques Delors, Mario Soares.
Stavolta le istituzioni europee si sono mosse per tempo: nel febbraio 2018 il Parlamento (uscente) ha avvertito il Consiglio europeo che respingerà qualsiasi candidato alla presidenza della Commissione che non sia stato nominato Spitzenkandidat alle europee. Pochi giorni dopo, la Commissione ha sottolineato che nel 2019 il candidato presidente sarà quello "che ottiene l’appoggio della maggioranza dapprima all’interno del Consiglio europeo (...) poi all’interno del Parlamento europeo". Il Consiglio europeo ha escluso qualsiasi automatismo e ribadito che non lo si può privare, salvo cambiare il Trattato, della prerogativa di scegliere il candidato presidente della Commissione. Il Parlamento europeo ha anche bocciato la proposta di liste transnazionali, basate sui seggi lasciati liberi dal Regno Unito, che avrebbero potuto avere gli Spitzenkandidaten quali capolista. Chissà in quale labirinto ci troveremmo oggi, a fronte del caos della Brexit.
Nel frattempo i partiti politici europei hanno scelto i loro Spitzenkandidaten: il PPE ha indicato il capogruppo Manfred Weber; il PSE il Vicepresidente della Commissione Frans Timmermans; l’ALDE ha fatto la scelta (discutibile) di schierare un “Team Europe”, con sette candidati, tra i quali Emma Bonino; per i conservatori dell’ECR c’è il loro presidente, Jan Zahradil; i Verdi hanno scelto Ska Keller e Bas Eickhout; anche il Partito della sinistra europea ne ha due, Violeta Tomič e Nico Cué. L’alleanza della destra sovranista non ha espresso un suo Spitzenkandidat.
Il 23-26 maggio si confronteranno coloro che vogliono promuovere l’integrazione europea e un frammentato fronte euroscettico. Vi sono pochi dubbi sul fatto che i primi prevarranno, ma con nuovi equilibri – e con l’ulteriore fattore di incertezza della partecipazione del Regno Unito al voto. La probabile fine di una maggioranza basata sul duopolio PPE-PSE richiederà nuove coalizioni. Già si ragiona su alleanze con o senza il PPE, del ruolo dell’ALDE (che dovrebbe dare vita a un nuovo gruppo con i macroniani de LaREM) e dei Verdi in una possibile coalizione (su quali punti programmatici?) con il PSE, in uno schieramento "da Macron a Tsipras".
Un nuovo sistema politico europeo si va strutturando, in cui la dimensione pro o contro l’avanzamento del processo d’integrazione si intreccia con la dinamica destra-sinistra, attorno a una nuova agenda internazionale: quale "sicurezza", quale "sviluppo", quale "sostenibilità" per la nostra Unione? Sarà importante mantenere un rapporto fiduciario tra Commissione e Parlamento, che controbilanci il potere degli Stati nazionali: in questo gli Spitzenkandidaten costituiscono una leva fondamentale nelle mani del Parlamento europeo.
Ma siamo giunti a un punto di approdo o solo a una fase transitoria del sistema? In una versione "rigida" del metodo Spitzenkandidat, il Parlamento potrebbe arrivare a uno scontro con il Consiglio europeo: "o uno di loro o nessuno". In una versione "morbida", prevarrebbe il principio che il presidente del "governo" europeo (la Commissione) deve scaturire da un accordo "bicamerale" fra chi rappresenta i cittadini (il Parlamento) e chi rappresenta gli Stati (il Consiglio europeo, Senato sui generis). Tutto questo, come sempre nell’Ue, va letto considerando l'intero pacchetto di nuove nomine per le cariche di vertice istituzionali – sui cui criteri il Consiglio europeo comincerà a discutere il 28 maggio –, con i necessari bilanciamenti fra Paesi membri vecchi e nuovi, di genere, tra schieramenti politici.
A medio termine, l’Ue potrebbe conoscere una dinamica politica di tipo americano, con un polo che riassorbe le spinte sovraniste, privilegia le prerogative degli Stati membri e guarda all’Unione soprattutto per l’elemento "sicurezza esterna", e un polo che guarda con più fiducia al livello "federale", quale fattore di sviluppo e protezione sociale. La prossima legislatura sarà anche quella della costruzione di veri partiti europei, decisivi per la legittimazione e la partecipazione democratiche, per dare un senso pieno alla "cittadinanza europea". Anche a questo avranno dato un contributo importante gli Spitzenkandidaten.
*Direttore del Centro Studi sul Federalismo (articolo pubblicato on line su la rivista Il Mulino)