Domenico Moro
Commento n. 238 - 7 dicembre 2021
Il 23 novembre scorso, otto giorni dopo che il Consiglio dei ministri dell’UE aveva esaminato la prima bozza dello Strategic Compass, il Capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, generale Luca Goretti, ha preso parte ad un’audizione davanti alle Commissioni Difesa riunite di Camera e Senato, sulla partecipazione italiana al progetto Tempest. Il contenuto dell’audizione è indicativo delle scelte che attendono la classe politica italiana nei prossimi mesi.
Il gen. Goretti, sollecitato da due domande della Presidente della Commissione difesa del Senato, Roberta Pinotti, che gli chiedeva se il Tempest e il Future Combat Air System (FCAS) franco-tedesco-spagnolo, potessero convergere in un unico progetto europeo, ha fornito due precisazioni. La prima, secondo cui la collaborazione anglo-italiana (cui si è poi aggiunta la Svezia) è stata sostenuta dall’Italia con l’ambiziosa intenzione di fare da “trait d’union tra la NATO e l’Unione europea, a garanzia di una piena interoperabilità con gli altri Paesi alleati, e di un potenziala accesso ai fondi di sviluppo dedicati alla nascente difesa europea”. Questo è, forse, vero per la NATO e se gli USA non si doteranno di un proprio velivolo di cosiddetta “sesta generazione”, ma sembra ben più difficile per l’UE, che si sta muovendo in una diversa direzione.
Nella seconda risposta, il gen. Goretti ha affermato che “prima o poi queste due realtà confluiranno in un’unica realtà, perché è impensabile investire grossissime risorse economiche in programmi equivalenti”. L’approccio suggerito è sicuramente corretto, ma i tempi per una decisione sembrano abbastanza stretti. Lo Strategic Compass, che ha come obiettivo la standardizzazione delle piattaforme militari, la loro interoperabilità e, più in generale, il rafforzamento dell’autonomia strategica europea sul piano della R&S e su quello industriale, verrà approvato nel corso della primavera del prossimo anno e traccerà le linee-guida per una comune politica europea nel settore della difesa. Se è opinabile ritenere che il progetto anglo-italiano Tempest risponda a questi obiettivi, non sembra però che vi siano margini temporali per una convergenza, sul piano tecnico, tra i due progetti, anche per aspetti che nel corso dell’audizione non sono stati affrontati.
Velivoli come il Tempest (e lo FCAS) sono definiti “sistema di sistemi” e una delle ragioni è dovuta al fatto che il suo software deve gestire, oltre alle funzionalità di bordo/operative, la manutenzione e diagnostica, monitoraggi logistici, ecc. (il sistema ALIS), anche l’analogo velivolo senza pilota ed un certo numero di droni che li accompagnano in missione. Ad esempio, le istruzioni software di un F-35 sono dodici volte più numerose di quelle di un velivolo della precedente generazione, il che spiega perché il software sia diventato la voce di costo prevalente. Ma altrettanto rilevante è l’infrastruttura satellitare su cui si devono basare velivoli come il Tempest. Se deve essere sempre operativo, in tutte le condizioni atmosferiche, ha bisogno di più sistemi satellitari che forniscano le necessarie informazioni: il Tempest si avvarrà dell’infrastruttura satellitare USA o di quella europea? Questi due aspetti pongono un problema di compatibilità tecnica.
Il quadro economico è altrettanto complesso. Secondo un rapporto della Corte dei conti sull’acquisto degli F-35 da parte dell’Italia, il costo del velivolo americano, al 2017, per la sola R&S è stato pari a 48 miliardi di euro (cambio medio 2020), ma le ultime stime, comprensive della fase di dimostrazione e test, arrivano a circa 70 miliardi. Per il Tempest e il FCAS è ragionevole attendersi che gli investimenti siano superiori, visto che dovrebbero entrare in esercizio mezzo secolo dopo i primi studi di fattibilità dell’F-35 ed essergli superiori in termini di requisiti tecnici. In un “Rapporto d’informazione” del Senato francese, del luglio 2020, “il costo totale del programma [SCAF – in francese] è valutato da alcuni analisti in una forchetta compresa tra 50 e 80 miliardi di euro”.
L’ammontare del fabbisogno finanziario del programma anglo-italiano(-svedese) non è ancora noto e il suo finanziamento per la parte iniziale risulta altrettanto incerto. Secondo un recente studio del Royal United Services Institute for Defence and Security Studies (RUSI), il Tempest costerebbe non meno di 25 miliardi di sterline (28 miliardi di euro). Nel bilancio della difesa del Regno Unito non vi sarebbero però fondi sufficienti per far fronte agli investimenti previsti, non solo per l’acquisto degli F-35 americani, ma neppure per il progetto Tempest, un progetto, inoltre, che difficilmente beneficerà dei contributi del Fondo Europeo per la Difesa.
Le collaborazioni industriali che si sviluppano in un’ottica esclusivamente intergovernativa, oltre che macchinose – come dimostrato dalle vicende dello FCAS –, sollevano le reticenze delle industrie nazionali ad accettare la leadership di altre industrie nazionali, spesso sostenute, con successo, da governi nazionali con bilanci pubblici solidi e corposi. La consapevolezza di questi problemi sembra si stia facendo strada anche tra le imprese del settore, di cui è opportuno ricordare il diverso peso specifico – basta guardare quanto il mercato valuta le principali società europee che operano nell’aerospazio: Airbus capitalizza 80 miliardi di euro, Dassault Systèmes 68, Safran 44, BAE Systems 24, Thales 15, Rolls Royce 10, MTU Aero Engines 9, Leonardo 3,6. L’Amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo, già in un’intervista all’inizio del 2019 sui progetti FCAS e Tempest, aveva auspicato “la convergenza con francesi e tedeschi”.
I problemi si risolveranno con commesse europee nel settore militare, ma prima che ci si arrivi e che l’industria aerospaziale europea si adegui al nuovo contesto istituzionale, occorrerà che il Fondo Europeo per la Difesa venga dotato di risorse più consistenti, anche per essere in grado di pilotare, in chiave europea, progetti basati su collaborazioni nazionali. Nel breve termine occorrerà convivere con il prevalente sistema intergovernativo, e se l’Italia vuole assumere un ruolo europeo nel settore dell’industria militare, sviluppando specifiche competenze in segmenti tecnologici chiave, la strada percorribile sembra quella di far parte, su un piede di parità con Francia e Germania, della società Airbus, ad esempio apportando la partecipazione pubblica in Leonardo a questo gruppo europeo. In questo caso, saranno soddisfatte le condizioni istituzionali e societarie affinché il sistema industriale italiano possa realisticamente ambire a posizioni di eccellenza nel sistema industriale europeo e mondiale.
*Membro del Consiglio Direttivo e Coordinatore dell’Area Sicurezza e Difesa del Centro Studi sul Federalismo