Fabio Maina
Commento n. 230 - 12 ottobre 2021
Per l’integrazione europea della difesa un primo punto di svolta arrivò cinque anni fa. Le tensioni a Sud e ad Est prima, ma soprattutto l’elezione di Donald Trump e la Brexit poi, hanno minato le certezze degli europei sull’affidabilità statunitense e contribuito alla diffusione dell’idea che l’UE debba essere in grado di intervenire autonomamente ove necessario. Nel giugno 2016, poche ore dopo l’esito del referendum sulla Brexit, l’allora Alto rappresentante Federica Mogherini pubblicò la nuova Strategia globale dell’Unione europea che, tra i suoi punti principali, includeva il rafforzamento della difesa europea e dell’UE come “comunità di sicurezza”. Gli anni successivi hanno visto l’istituzione, la revisione o il lancio di importanti strumenti che, insieme, possono indicare un percorso per lo sviluppo collaborativo di capacità militari europee.
Il Piano di sviluppo delle capacità (CDP), già esistente ma rivisto nel 2018 alla luce della Strategia globale, individua le priorità su cui i Paesi membri dovrebbero concentrarsi. La Revisione coordinata annuale della difesa (CARD) fornisce una valutazione sul panorama della difesa europea, i trend del settore della difesa e individua opportunità di cooperazione per lo sviluppo di capacità militari, la Cooperazione strutturata permanente (PESCO), varata nel dicembre 2017, rappresenta uno dei possibili fori in cui sviluppare suddette capacità tramite progetti, che possono poi ricevere finanziamenti maggiorati dal Fondo europeo per la difesa (EDF), nato nel giugno 2017. Questo quadro di strumenti è inteso come complementare, e non sostitutivo, alla NATO. Come i documenti ufficiali UE non mancano mai di ricordare, la NATO rimane il fondamento della difesa collettiva per molti Paesi membri. L’argomento utilizzato per tranquillizzare gli statunitensi è che la difesa europea contribuirà ad un più equo burden sharing e quindi ad un più sano rapporto transatlantico.
E così dovrebbe essere: l’UE è ancora molto lontana dal livello di ambizione che si è prefissata circa la gestione delle crisi, come testimonia l’analisi “Protecting Europe”. Una difesa territoriale autonoma europea al momento rimane un miraggio, rendendo indispensabile la garanzia di protezione americana. Oltretutto, al di là degli eventi recenti, sono in corso diversi sviluppi che richiedono una cooperazione transatlantica. Così come gli europei hanno bisogno degli statunitensi per la loro difesa, anche gli statunitensi hanno bisogno degli europei per fare fronte a queste sfide e contenere Cina e Russia.
A quattro anni circa dal loro avvio, però, i nuovi strumenti europei per la difesa sembrano generare scetticismo, con commentatori che arrivano a definire la PESCO un “mezzo fallimento”, affetta da vari problemi, partendo dalla persistenza di una “cultura dell’inadempienza” tra i Paesi partecipanti che, grazie alla natura piuttosto generica dei cosiddetti criteri vincolanti della PESCO, continuerebbero a dare la priorità ai loro obiettivi nazionali. Non vi è un obiettivo specifico per la PESCO, al di fuori dell’ipotesi che essa possa portare in futuro alla definizione di un pacchetto di forze che copra tutto lo spettro. La PESCO oggi annovera 46 progetti (più uno chiuso in quanto fonte di duplicazioni), pochi di questi con rilevanza strategica significativa. Uno dei più rilevanti è l’Eurodrone MALE, già in fase di studio prima del lancio della PESCO. Vi sono dubbi, quindi, sul valore aggiunto che ad oggi la PESCO apporta alla difesa europea, mentre sembra più chiaro quale sia l’obiettivo di diversi Paesi partecipanti: ottenere i fondi dell’EDF perseguendo priorità puramente nazionali. L’entità del Fondo, poi, è stata considerevolmente ridotta nel bilancio UE 2021-2027: 8 miliardi di euro rispetto ai 14 della proposta iniziale.
Affinché l’Unione ed i suoi Paesi membri appaiano come attori credibili sull’arena internazionale, la difesa europea deve essere più che un semplice foro di cooperazione dipendente dalla buona volontà dei suoi partecipanti. Serve una visione chiara di ciò che l’Unione intende fare militarmente e di come ottenere ciò che le manca. La Bussola strategica (o Strategic Compass) in corso di definizione rappresenta in questo senso un’opportunità da non sprecare. Dopo la conclusione della prima fase, incentrata su un’analisi delle minacce, si attendono per novembre i risultati della seconda fase del Compass (la versione finale arriverà a marzo 2022), ossia un processo di dialogo volto ad arrivare ad una visione comune del ruolo dell’Unione come security provider. Ciò include anche lo sviluppo delle capacità europee ed il rapporto tra UE e NATO.
Per quanto riguarda lo sviluppo delle capacità, si auspica che dal Compass emerga un impegno verso la semplificazione del processo di pianificazione UE, ad oggi troppo complesso, non lineare e poco considerato dai Paesi membri. Ciò non solo nell’ottica di far sì che il processo di pianificazione UE influisca sulle difese nazionali, ma anche di una maggiore sincronizzazione con il più omogeneo NATO Defence Planning Process (NDPP). Bisogna poi chiarire lo scopo della PESCO e degli strumenti collegati: è la creazione di un pacchetto di forze coerente che copra tutto lo spettro? Considerando la volontà manifestata in tal senso dal Consiglio con la prima revisione strategica della PESCO la risposta dovrebbe essere positiva. In tal caso, la PESCO va riformata affinché diventi uno strumento per raggiungere tale obiettivo. Le idee non mancano, dalla categorizzazione dei progetti a seconda della loro rilevanza strategica, con le risorse del Fondo disponibili solo per quelli più importanti, alla definizione di indicatori per misurare i progressi dei Paesi partecipanti e l’istituzione di meccanismi di peer-review basati sui Piani di implementazione nazionale che ciascun partecipante PESCO deve aggiornare ogni anno.
Al di là delle previsioni per il futuro della cooperazione UE-USA nella NATO, è però innegabile che gli Stati Uniti siano sempre meno inclini ad occuparsi della gestione delle crisi nell’area MENA, come mostra indirettamente il ritiro dall’Afghanistan, e che l’Europa abbia perso posizioni nella lista delle priorità geostrategiche statunitensi (esemplificato recentemente dalla conclusione del patto trilaterale AUKUS senza notificare l’UE o coinvolgere la Francia – che ha visto annullato il contratto per la fornitura di sottomarini all’Australia). L’implicazione (largamente condivisa) è che l’UE debba farsi carico della gestione delle crisi nel suo vicinato, continuando a fare affidamento sull’alleanza con gli Stati Uniti per la difesa collettiva, seppur con una più equa distribuzione degli oneri, da perseguire anche attraverso lo sviluppo di capacità comuni. Uno dei ‘basket’ del Compass è dedicato proprio alle partnership, tra cui UE-NATO e UE-USA.
L’Unione europea ha già saltato troppi appuntamenti per la definizione di una “Unione europea della difesa”, subendone le conseguenze. Lo Strategic Compass rappresenta l’opportunità per riaffermare e chiarire l’impegno dell’UE nel settore della sicurezza, far sì che gli strumenti della difesa europea, vecchi e nuovi, procedano nella giusta direzione e definire il proprio ruolo nella NATO. Il Compass avrà successo, sottolinea la Hertie School - Jacques Delors Centre, se sarà sufficientemente preciso e seguito da azioni concrete. Le conseguenze in caso contrario saranno un numero sempre crescente di casi “AUKUS”, nei quali gli europei verranno lasciati da parte in quanto ritenuti non sufficientemente seri, e di casi “Afghanistan” in cui a beneficiare dell’incapacità di azione europea saranno potenze regionali oppure attori non statuali con interessi e visioni del sistema internazionale anche radicalmente opposti ai nostri.
*Laureando magistrale in Scienze Internazionali - Studi Europei all'Università degli Studi di Torino