Un piano per una “pace perenne” tra Israele e Palestina

Un piano per una “pace perenne” tra Israele e Palestina

Alberto Majocchi / 17 ottobre 2024

Commento n. 306

Mentre il conflitto in Medio Oriente, dopo la distruzione di Gaza in risposta alla strage da parte di Hamas del 7 ottobre 2023, diventa ancora più drammatico con la risposta israeliana al lancio di missili e droni da parte di Hezbollah, ma anche da parte degli Iraniani e dei ribelli Houthi dello Yemen, con una proposta presentata qualche mese fa e rilanciata da Le Monde il 7 ottobre scorso (a un anno dall’attacco terroristico di Hamas) Ehud Olmert, già Primo Ministro israeliano, e Nasser Al-Kidwa, nipote di Arafat e già Ministro degli Esteri dell’Autorità palestinese, formulano un piano “per assicurare una pace perenne israelo-palestinese”.

La loro proposta presuppone, evidentemente, la fine del conflitto a Gaza e nella zona sud del Libano, con la liberazione degli ostaggi detenuti da Hamas, mentre in cambio Israele dovrebbe rilasciare un numero concordato di prigionieri palestinesi. In un secondo tempo, gli israeliani si ritireranno da Gaza e in questo territorio si dovrà insediare una nuova Autorità palestinese responsabile e legittimata dal consenso non solo dei palestinesi, ma anche dei paesi arabi vicini e della comunità internazionale. Una forza araba temporanea sarà costituita per garantire la sicurezza e opererà, in coordinamento con le forze di sicurezza palestinese, per stabilizzare la situazione durante il ritiro delle forze israeliane.

Il piano prevede la presenza di due Stati, Israele e Palestina, ciascuno limitato dalle frontiere esistenti al 4 giugno 1967 – prima della guerra dei Sei giorni –, con il trasferimento a Israele del 4,4% del territorio della Cisgiordania, in particolare nell’area in cui sono prevalentemente inserite le colonie israeliane. Un ammontare equivalente di territorio all’interno di Israele verrà restituito alla Stato palestinese, includendovi un corridoio per collegare la Striscia di Gaza con la Cisgiordania.

Per quanto riguarda Gerusalemme, la parte della città già compresa in Israele prima del 5 giugno 1967 e i nuovi quartieri ebraici costruiti negli anni seguenti costituiranno la capitale di Israele. Il territorio occupato da questi nuovi quartieri rientrerà nel 4,4% attribuito ad Israele. Tutti i quartieri arabi che non facevano parte della municipalità israeliana di Gerusalemme prima dell’inizio della Guerra dei Sei giorni saranno restituiti all’Autorità palestinese e saranno inclusi in Gerusalemme capitale della Palestina. La Città vecchia sarà governata da una autorità fiduciaria composta da cinque Stati, fra cui Israele e la Palestina, e garantirà la libertà di movimento all’interno della città e verso i rispettivi luoghi di culto per gli ebrei, i musulmani e i cristiani. Nessun paese avrà quindi una sovranità esclusiva sulla Città vecchia.

Visto il sostanziale fallimento dei paesi occidentali nel promuovere la fine dello scontro in atto, una nuova iniziativa di pace presuppone il coinvolgimento dell’insieme dei paesi arabi e, in particolare di Egitto, Arabia Saudita e degli altri Stati della Penisola arabica, includendo il Qatar, che finora ha fornito un sostegno al gruppo di Hamas (ospitandone il vertice politico), ma che, dopo la strage di cittadini israeliani compiuta da Hamas, è stato direttamente coinvolto nelle trattative per arrivare a una tregua.

Nella situazione attuale il piano può apparire del tutto irrealistico, ma lo stato di guerra aperta è comunque destinato a finire e sulle ceneri rimaste occorrerà ricostruire un assetto nuovo, che garantisca la pace fra il popolo israeliano e quello palestinese. E di questo assetto futuro è necessario che si incominci a discutere oggi. Sul fronte israeliano, grazie alla pressione dell’opinione pubblica interna, ma anche degli Stati Uniti, dell’Europa e della grande maggioranza dei paesi del Sud del mondo, il governo Netanyahu sarà costretto a dimettersi e la responsabilità di governo verrà assunta da una nuova coalizione che riconosca il principio dell’esistenza dei due Stati, con una solenne garanzia internazionale per la sicurezza del popolo israeliano all’interno dei suoi confini e per il mantenimento di rapporti pacifici con i paesi arabi vicini.

Da parte loro, è indispensabile che i paesi arabi si impegnino per costringere Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano a cessare i lanci di droni e missili verso Israele e per garantire che in futuro, una volta raggiunto un accordo per la fine del conflitto, gli uomini di Hamas cedano il potere a una nuova generazione. Questa si dovrà impegnare non soltanto nella definizione di un nuovo assetto politico di uno Stato palestinese che includa Gaza e la Cisgiordania, riconosciuto dalla comunità internazionale e fondato su istituzioni democraticamente elette, ma altresì nel promuovere un forte e immediato rilancio dell’economia palestinese, in grado di garantire migliori condizioni di vita a tutti i cittadini del nuovo Stato.

Secondo Abdallah al-Dardari, direttore dell’Ufficio regionale per gli Stati arabi dell’United Nations Development Programme, soltanto le spese per la ricostruzione della Striscia di Gaza superano i 30 miliardi di dollari, e potrebbero arrivare a 40 miliardi. Il progetto Palestine Emerging, elaborato dalla Palestinian Reconstruction and Economic Partnership (PREP), un gruppo creato a Londra da oltre un centinaio di leader di aziende private e pubbliche, prevede la costruzione di un porto offshore su un’isola artificiale e di un aeroporto, 540mila unità abitative, 610 mila nuovi posti di lavoro e un Pil pro capite di 9.000 dollari. Inoltre, connettività terrestre anche con alta velocità ferroviaria e struttura di rete con tecnologia 5G, desalinizzazione dell’acqua ed energie rinnovabili.

Il Piano di sviluppo, che dovrà riguardare non soltanto Gaza, ma anche il territorio della Cisgiordania, dovrebbe essere in larga misura finanziato dai paesi che fanno parte del Consiglio di cooperazione degli Stati del Golfo Persico. Si verrebbero così a creare i presupposti per una Palestina democratica ed economicamente sviluppata, nella prospettiva – difficile, ma ineludibile, per un futuro di pace e di sviluppo – della progressiva creazione di un’area di libero scambio in tutta l’area medio-orientale, che preluda, a medio termine, alla creazione di legami più forti anche dal punto di vista istituzionale, così come suggerito recentemente, con un intervento sulla Süddeutsche Zeitung del 7 ottobre scorso, dal filosofo ebreo-israeliano Omri Boehm e dalla politologa palestinese-israeliana Rula Hardal, che ipotizzano per il futuro un legame federale a partire dai due Stati di Israele e della Palestina, sul modello dell’Unione europea.

Sono segnali importanti, che l’Unione europea deve cogliere, nella consapevolezza che la strada per la pace è lunga e difficile e deve prevedere il superamento delle situazioni di crisi esistenti in Libano, Siria, Iraq e Yemen. Soltanto l’Unione europea può dare un contributo significativo per promuovere condizioni di maggiore sicurezza in tutto il Mediterraneo e per ridurre le tensioni che caratterizzano oggi i rapporti fra gli europei e i cittadini di religione islamica. Sarebbe un grande passo in avanti verso il ritorno di una pace fondata su condizioni di giustizia e di sviluppo per tutti i territori dell’area medio-orientale.

*Alberto Majocchi è Professore Emerito di Scienza delle Finanze all’Università di Pavia, membro del Comitato Scientifico del Centro Studi sul Federalismo

Download PDF - Commento n. 306

Centro Studi Federalismo

© 2001 - 2024 - Centro Studi sul Federalismo - Codice Fiscale 94067130016

Fondazione Compagnia San Paolo
Le attività del Centro Studi sul Federalismo sono realizzate con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo
Fondazione Collegio Carlo Alberto
Si ringrazia la Fondazione Collegio Carlo Alberto