Olimpia Fontana
Commento n. 153 - 20 giugno 2019
I risultati delle recenti elezioni per il Parlamento europeo aprono un inedito spazio di manovra, pur in un assetto politico frammentato, per realizzare un ambizioso progetto di Green New Deal europeo. Sarà importante svilupparlo con una prospettiva di ampio respiro: non dovrà trattarsi solo di un piano di riconversione industriale in chiave ecologica, dovrà tenere in considerazione anche gli aspetti sociali della transizione.
La politica energetica europea per la transizione verso un’economia a zero emissioni nette entro il 2050 è stata definita lo scorso novembre dalla Commissione. Nella comunicazione A Clean Planet for all risulta chiaro l’obiettivo finale di arrivare a metà del secolo con un aumento della temperatura, rispetto ai livelli pre-industriali del periodo tra il 1850 e il 1900, contenuto al di sotto della soglia dei 2°C, oltre la quale potrebbe aprirsi uno scenario da “Hothouse Earth”, con effetti sul pianeta ormai fuori controllo.
La strategia della Commissione fornisce un’articolata serie di azioni concrete, che vanno dall’efficienza energetica degli edifici alla diffusione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, dall’economia circolare per aumentare i tassi di riciclo e ridurre la domanda di materie prime ai sistemi di cattura e stoccaggio del carbonio. L’efficacia di queste proposte dipenderà sia dalla velocità della loro applicazione sia dalla capacità dei cittadini di diventare parte attiva del cambiamento. Un elemento importante della transizione riguarda quindi l’accettazione pubblica di determinati modi di produzione e di nuovi stili di vita e di consumo, che aggiunge ulteriore complessità alla definizione di un Green New Deal europeo.
Finora le riflessioni sullo sviluppo sostenibile si sono concentrate da una parte sulle potenzialità della green economy, in cui si considerano le interazioni tra l’economia e l’ambiente, dall’altra su concetti di sviluppo inclusivo, dove si considerano le relazioni reciproche tra l’economia e le persone. Ciò che manca è un terzo collegamento, quello tra ambiente e dimensione sociale, tanto più se quest’ultima è caratterizzata da elevati livelli di disuguaglianza. “Il rischio ambientale ha certamente un orizzonte globale, ma è socialmente differenziato“, così l’economista francese Eloi Laurent sintetizza il legame tra sfida ambientale e diseguaglianze sociali, intendendo come l’impatto della crisi ambientale non sia lo stesso per tutti, ma dipenda dallo status socio-economico.
Secondo questo approccio, la diseguaglianza determina conseguenze che rendono più difficile la lotta alle sfide ambientali. È stato dimostrato, ad esempio, come le famiglie più povere siano meno propense a cambiare abitudini in fatto di riduzione di rifiuti e pratiche di riciclo. Anzi, i consumi delle famiglie tendono a diventare ostentativi nel tentativo di imitare lo stile di vita delle famiglie più abbienti, in una società in cui il modello di consumo della popolazione più ricca è culturalmente dominante. Nessi causali esistono poi anche nel senso opposto, dalla sfera ambientale verso quella sociale. Il manifestarsi di temperature eccezionalmente calde produce, attraverso la riduzione dei raccolti, aumenti dei prezzi per i consumatori, con effetti regressivi per le famiglie con redditi più bassi. Oppure, come l’esperienza francese insegna, i tentativi di introdurre misure di tutela ambientale, come la carbon tax, incontrano tali resistenze da parte della società da richiedere forme compensative sulla base del reddito, se non anche della localizzazione geografica.
Una proposta per alleviare le tensioni insite nel nesso socio-ecologico potrebbe venire da una strategia europea in materia di alloggi sociali a prezzi accessibili per tutti e, più in generale, da un programma di infrastrutture sociali che riguardi anche i settori dell’istruzione e della sanità, come raccomandato dal rapporto sugli investimenti in infrastrutture sociali, del 2018, redatto della task force di alto livello presieduta da Romano Prodi e Christian Sautter. Il passo successivo sarebbe quello di introdurre criteri di tutela ambientale, quali il dotare tali alloggi di isolamento termico. Ciò permetterebbe di ridurre il consumo di energia, alleviando situazioni di povertà energetica. Proposte che rientrano in un più ampio pacchetto di misure centrate sull’uguaglianza sostenibile, in cui le crisi attuali in ambito economico, sociale e ambientale non possono essere affrontate prescindendo dal riconoscimento del legame tra giustizia sociale e giustizia ambientale.
Per un efficace Green New Deal europeo un ulteriore fattore chiave è rappresentato dalla disponibilità di risorse finanziarie adeguate per realizzare investimenti eco-socio-ecologici. L’eccesso di risparmio privato sui mercati ha portato negli ultimi anni le istituzioni a fare affidamento sulla partecipazione del settore privato per finanziare investimenti e infrastrutture. Tuttavia, il riorientamento dei mercati verso la finanza sostenibile è ostacolato da rischi, sia di tipo tecnico, dovendo finanziare tecnologie ancora nuove o progetti con tassi di rendimento difficili da quantificare, sia di tipo politico, per la mancanza di un quadro stabile e coerente di misure ambientali e fiscali. Per esempio, la mancanza di una carbon tax, i cui proventi, tra l’altro, potrebbero sostenere forme di compensazione di reddito nella logica del nesso socio-ambientale, o la pressione che i vincoli europei di finanza pubblica esercitano sugli investimenti pubblici, rendono più stringente il trade-off tra bilanci pubblici in equilibrio e fabbisogno di investimenti per affrontare le sfide socio-ambientali.
Nella prossima programmazione finanziaria Ue 2021-2027 la Commissione vorrebbe destinare alla climate action un importo annuale complessivo di circa 45 miliardi di euro, in aumento rispetto ai 29 miliardi del periodo 2014-2020. Per la transizione energetica è previsto, su impulso del Parlamento europeo, un Energy Transition Fund, che dovrebbe essere dotato di 4,8 miliardi di euro. In prospettiva, il potenziamento del bilancio andrà ricercato non nell’aumento dei contributi nazionali, che peserebbero in ultima analisi sui cittadini europei, ma in nuove risorse proprie provenienti da settori sotto-tassati, quali ad esempio le grandi multinazionali in ambito digitale. A livello nazionale, una golden rule sugli investimenti pubblici potrebbe essere riproposta in chiave green e social: gli investimenti pubblici in infrastrutture sociali e ambientali, opportunamente definiti per evitare pratiche abusive, andrebbero scorporati dal calcolo del pareggio di bilancio ai fini delle regole fiscali europee, potendo così essere finanziati attraverso debito, fermo restando il vincolo di pareggio sulla spesa corrente.
Nei prossimi mesi la nuova Commissione e il neo-eletto Parlamento europeo saranno impegnati, insieme ai governi nazionali, a dare delle risposte adeguate alle complesse interconnessioni che stanno dietro al progetto di un Green New Deal europeo: sembra difficile che esso possa avere successo se non sarà accompagnato dal pieno coinvolgimento delle tre dimensioni (economica, ambientale e sociale) e dotato di adeguate risorse finanziarie.
*Ricercatrice del Centro Studi sul Federalismo