Flavio Brugnoli
Commento n. 177 - 4 maggio 2020
La settimana che oggi si apre con i primi passi, in Italia, della Fase 2 dell’emergenza Covid-19, avrebbe dovuto vedere anche l’avvio della “Conferenza sul futuro dell’Europa”, che era atteso per il 9 maggio (nel settantennale della Dichiarazione Schuman). Un’apertura rinviata a data da destinarsi, mentre l’attenzione è concentrata sulle riaperture delle attività economiche e sociali paralizzate dalla pandemia. Tutte le agende politiche – nazionali, europee, mondiali – sono state ridisegnate dall’incalzare del coronavirus. Ma è ormai chiaro che una parte importante del futuro dell’Unione europea si sta già scrivendo ora, sotto la spinta di una crisi senza precedenti.
Al di là delle diatribe sui tempi di risposta all’emergenza, quanto è stato fatto a livello europeo e quanto resta ancora da fare forniscono un eccellente quadro d’insieme degli snodi su cui agire. Per un Centro che studia il “federalismo”, inteso come ripartizione di ruoli, risorse, responsabilità fra più livelli di governo interdipendenti, gli incroci con idee e proposte avanzate nel corso degli anni sono molteplici: dalle difficoltà sperimentate nei rapporti fra Stato e Ragioni in Italia (anche a confronto di una “Repubblica federale” qual è la Germania), al rafforzamento del governo e del bilancio europei, al mancato “governo della globalizzazione”. Ma andiamo con ordine.
Non è possibile fare qui un elenco puntuale delle misure in campo sanitario e in campo economico introdotte dalle istituzioni europee, e in primo luogo dalla Commissione. è noto che, in base ai Trattati, nella sanità l’Unione ha competenze limitate: la sua azione “completa le politiche nazionali” – e tale azione “comprende la lotta contro i grandi flagelli”. Nondimeno, le decisioni prese sono state d’impatto, dalla preservazione dell’apertura del mercato interno per i dispositivi sanitari, ai bandi per la creazione di loro scorte strategiche, all’attivazione della Protezione civile europea, allo sforzo per dare linee guida coerenti ai Paesi membri per un’uscita coordinata dall’emergenza (all’evidenza controversa anche all’interno dei singoli Stati).
In campo economico è pesantissimo il prezzo del pur necessario lockdown, con una caduta del Pil dell’Ue nel 2020 stimata fra il 5 e il 10%. Ed è ormai generalizzata la convinzione che con il Covid-19 siamo in presenza di uno shock simmetrico, senza responsabilità per i singoli Paesi, anche se questi ne sono stati investiti con tempi diversi. Non è però simmetrico lo stato delle loro finanze pubbliche, e in particolare della loro capacità di indebitamento. Solidarietà e sostenibilità sono elementi che vanno entrambi tenuti presenti, per orientarsi nelle scelte da fare, consapevoli che una crisi dell’eurozona travolgerebbe tutti i Paesi membri.
Fondamentale è stata, ancora una volta, l’azione della Banca centrale europea, che – dopo lo scivolone iniziale della sua Presidente in materia di spread – ha messo rapidamente in campo strumenti adeguati alla portata della crisi, primo fra tutti il Pandemic Emergency Purchase Programme, da 750 miliardi di euro almeno sino a fine 2020, con acquisti di titoli, pubblici e privati (e garanzie ridotte), che per l’Italia potranno arrivare a 220 miliardi. Un ombrello protettivo indispensabile anche per avere il tempo di varare le altre misure, parallele a quelle monetarie.
L’Italia ha saputo costruire un nucleo di alleanze, che si è sostanziato nella lettera del 25 marzo scorso, con altri otto governi dell’Eurozona (tra cui Francia e Spagna), con la richiesta di arrivare a uno “strumento di debito comune”. Un dibattito che si è poi focalizzato sulla parola magica o proibita “eurobond”, da intendere non come mutualizzazione dei debiti passati bensì quale impegno condiviso per quelli futuri. Un’azione che ha contribuito a mettere in moto una pluralità di risposte, in tempi incomparabili rispetto alla lentezza di quelle di fronte alla crisi del 2008.
Avevamo già visto la sospensione – per la prima volta – del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) e l’allentamento della normativa sugli aiuti di Stato. Si è arrivati a un pacchetto di nuove risorse incentrato su tre pilastri, da attivare dal 1° giugno prossimo, con: linee di credito della Banca Europea per gli Investimenti fino a 200 miliardi di euro; la creazione del SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency), “cassa integrazione” europea complementare a quelle nazionali, con risorse fino a 100 miliardi di euro; una linea di credito del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), fino al 2% del Pil di ciascun Paese, da destinare alla copertura di “costi diretti e indiretti” per l’emergenza sanitaria.
Il quarto pilastro, decisivo, è il “Fondo per la ripresa” (Recovery Fund) proposto dalla Francia e fatto proprio dagli altri Stati membri, con un mandato alla Commissione per definirne le caratteristiche. Sono vari i punti da chiarire: entità del Fondo, sua destinazione (settoriale e geografica), bilanciamento (quantitativo e cronologico) fra sussidi e prestiti, possibilità di entrare nel capitale delle imprese. Ma il suo aggancio al Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 costituisce una grande opportunità, che può innescare trasformazioni profonde a medio termine.
L’integrazione europea è un processo che ha nelle crisi i suoi punti di svolta. Con la crisi “da coronavirus” siamo entrati in una Fase 2 dell’Unione economica e monetaria, in cui strumenti e istituti esistenti vanno ripensati in vista di sfide durissime: la sospensione del PSC può consentirne un ridisegno più espansivo; il MES deve trovare una sua nuova vocazione, da strumento di salvataggio di singoli Stati a cassa europea per la ricostruzione; il Bilancio pluriennale deve uscire dalla logica asfittica e “frugale” dei saldi netti nazionali per assumere un ruolo di motore di investimenti in “beni pubblici europei”, sostenuti sia da una capacità di indebitamento dell’Unione sia da vere “risorse proprie”, dalla web tax al carbon pricing.
La Commissione von der Leyen si è data quali assi strategici quinquennali la transizione verde e la trasformazione digitale: Green Deal e “sovranità digitale europea”. In questi mesi abbiamo avuto ampie conferme della loro necessità e urgenza. Il “dopo” non potrà essere un ritorno al “prima”. Ma non dobbiamo farci illusioni: sul Green Deal si combatterà una battaglia fra chi vedrà in esso un freno alla ripresa, un “lusso” di fronte all’entità della crisi, e chi lo vedrà come un acceleratore, un’opportunità per portare avanti cambiamenti improcrastinabili (di fronte alla emergenza climatica), in un rinnovato patto fra generazioni. A quei due si dovrà ora affiancare un terzo asse, incentrato sul rafforzamento di sanità pubblica e ricerca scientifica.
A livello globale, dopo l’elezione di Trump negli USA, avevamo visto una erosione costante del multilateralismo, contrastata dall’Ue e da leader come Merkel e Macron. Il Covid-19 ha mostrato al mondo la necessità di avere una Organizzazione Mondiale della Sanità – che nella crisi ha evidenziato gravi limiti – riformata e in grado di garantire un’adeguata cooperazione in materia di informazioni affidabili, approvvigionamenti sanitari, ricerca di un vaccino. Nel frattempo, è importante che l’Ue non si sia chiusa su se stessa di fronte alla pandemia, sia con una “risposta globale” indirizzata ai paesi partner (con un impegno fino a 15,6 miliardi di euro) sia con la conferenza on line che parte oggi per raccogliere fondi proprio per la ricerca sul vaccino.
Abbiamo davanti un percorso irto di ostacoli, alla difficile ricerca del miglior equilibrio fra tutela della salute e riavvio dell’economia. Diventa ancora più importante che classi dirigenti e opinione pubblica siano consapevoli che il futuro dell’Italia si (ri)costruirà solo con senso di responsabilità collettivo e una partecipazione attiva al rafforzamento dell’Unione europea, in un mondo che quasi certamente vedrà crescere il ruolo e il peso delle integrazioni “macroregionali”.
*Direttore del Centro Studi sul Federalismo