Flavio Brugnoli
Commento n. 142 - 18 febbraio 2019
In questi anni abbiamo visto mutare profondamente il concetto di “sicurezza”, per le persone e per gli Stati: ha assunto un significato ampio e trasversale, che investe molti ambiti tanto della nostra vita quotidiana quanto della “grande politica”, in un quadro internazionale in costante – e non di rado preoccupante – cambiamento.
Quando parliamo di “sicurezza” non possiamo più limitarci al pur fondamentale campo della difesa. Guardiamo alla sfera ben più vasta del bisogno di “protezione”: da vecchie e nuove minacce, da vecchi e nuovi rischi, da trasformazioni portatrici di effetti positivi ma disomogenei, non prive di conseguenze negative per strati della società.
Gli esempi sono sotto i nostri occhi: la sicurezza alimentare, la difesa dell’ambiente dai cambiamenti climatici, la tutela dei diritti sociali (in economie aperte e competitive), la sicurezza nei rifornimenti energetici, la salvaguardia del territorio, il governo del fenomeno epocale delle migrazioni (contemperando diritti umani e sicurezza), la tutela dei dati personali, la sicurezza e affidabilità delle comunicazioni e dell’informazione; fino alla sicurezza e difesa in senso stretto, anch’esse confrontate a nuovi scenari e nuove sfide.
In tutti questi ambiti l’Unione europea (Ue) svolge già oggi ruoli molteplici ed altri dovrà essere stimolata a svolgerne. Talvolta di avanguardia, in rappresentanza dell’intera Unione; altre volte di coordinamento e sprone ai governi nazionali; in altri di difensore dei diritti dei cittadini europei in nome di un interesse generale che trascende i confini nazionali.
Di fronte alla globalizzazione
Quel fenomeno complesso e cangiante che va sotto il nome di “globalizzazione” ha portato grandi benefici, anzitutto per lo sviluppo di paesi fino a pochi decenni fa poverissimi. Ma sono emersi, specie dopo la crisi del 2008, anche pesanti costi economici e sociali nei paesi sviluppati. Sappiamo quanto la vittoria di Trump negli Stati Uniti si spieghi anche con la sua attenzione verso quegli “uomini e donne dimenticati” che sono i veri “perdenti della globalizzazione”.
L’Ue è quindi chiamata ad agire su un doppio binario: come attrezzarsi per fronteggiare la globalizzazione, mantenendone i benefici e proteggendo i cittadini europei dagli impatti negativi? Come contribuire a orientare la globalizzazione, quale soggetto attivo e propositivo su scala mondiale? In altre parole, l’Ue come può difendere e affermare, all’interno e all’esterno, alcuni fondamentali “beni pubblici europei”?
Va sempre ricordato che l’Unione ha saputo darsi una “Strategia globale”, varata nel giugno 2016 – in particolare su impulso dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini –, che ha definito il quadro di opportunità, sfide, minacce in cui ci muoviamo e le possibili vie per un ruolo da protagonista dell’Ue. Ma in questi anni altri passi importanti sono stati fatti: nell’affermare standard europei per la difesa del consumatore come nel porre le fondamenta di un’Unione dell’energia; nella lotta al cambiamento climatico, con un ruolo di capofila dell’Ue, prima e dopo l’Accordo di Parigi del 2015 (dal quale l’Amministrazione Trump è sciaguratamente uscita); nel rilanciare il “pilastro europeo dei diritti sociali” (in un ambito in cui le competenze restano in larga misura nazionali), nel rafforzamento dell’agenda commerciale europea, in difesa del multilateralismo (il commercio internazionale è competenza esclusiva dell’Ue), ma su basi di reciprocità; nell’attenzione per lo sviluppo dell’Africa, non solo per un governo efficace delle migrazioni (sul quale il vero immobilismo viene dagli Stati nazionali); nella messa in atto di passi importanti verso un nucleo europeo di difesa, dal Fondo europeo per la difesa al varo della Cooperazione strutturata permanente, fra 25 Paesi membri, con 17 progetti comuni.
Un gigante economico
Va da sé che non si tratta di considerare l’Ue senza pecche o di sottacerne carenze di iniziativa in ambiti importanti – sempre che non diventino il capro espiatorio per inadempienze o inerzie nazionali. Si tratta piuttosto di comprendere che la cornice e l’azione europee sono fondamentali per poter giocare un ruolo efficace e lungimirante nel “nuovo disordine globale”: non per contrapporre a un velleitario “America First” un altrettanto velleitario “Europe First”, ma per difendere e promuovere, per quanto possibile, un mondo basato su regole condivise e strategie cooperative, multilaterali.
Per questo è importante anche non perdere mai di vista i nostri punti di forza. L’Ue rimane una potenza a livello mondiale: è l’area economica più integrata del pianeta; un terzo del suo (nostro) reddito dipende dagli scambi con l’estero; dispone della seconda valuta a livello mondiale; il “modello sociale europeo” rimane una sua formidabile peculiarità (percepita più nel resto del mondo che all’interno dell’Ue). Il problema di fondo per l’Ue è semmai quello della scarsità di risorse proprie per mettere in atto politiche europee e globali adeguate: oggi il bilancio dell’Unione rappresenta a malapena l’1% del Pil europeo. È auspicabile che anche il dibattito prima e dopo le elezioni europee di fine maggio si concentri sulla necessità di superare questo limite miope e autolesionistico.
* Direttore del Centro Studi sul Federalismo (articolo pubblicato oggi da Europea. Parlano i fatti, piattaforma informativa promossa dal CSF con IAI, CeSPI, ECFR, ISPI, Villa Vigoni e Formiche)