Il Competitiveness Compass: molte ambizioni, qualche preoccupazione

Il Competitiveness Compass: molte ambizioni, qualche preoccupazione

Olimpia Fontana / 4 febbraio 2025

Commento n. 314

La Commissione europea ha presentato l’attesa roadmap che guiderà l’Unione europea (Ue) nei prossimi cinque anni, il Competitiveness Compass (CC), una bussola per ritrovare la via della crescita e della competitività internazionale. Un documento denso di iniziative, scandite da un preciso cronoprogramma. La strategia riprende linee già tracciate in precedenza: la crescita europea deve avere radici nella transizione ecologica e nella riduzione delle dipendenze da shock esterni, facendo leva sul potenziale (incompiuto) del mercato unico. In pratica, un piano operativo a partire dalle raccomandazioni dei rapporti di Mario Draghi ed Enrico Letta.

Il CC apre sottolineando i tre fattori storici su cui l’Ue oggi non può più contare: una forte domanda esterna in un sistema commerciale globale aperto; l’accesso a energia fossile, economica e abbondante; il peace dividend garantito da una relativa stabilità geopolitica. La Commissione, in linea con il Rapporto Draghi, indica tre esigenze trasformative per stimolare la competitività: colmare il ritardo di innovazione rispetto a Stati Uniti e Cina, ampliatosi dagli anni ’90, che oggi riguarda settori quali intelligenza artificiale, semiconduttori, biotecnologie, tecnologie per l’energia pulita, robotica, tecnologie spaziali; trovare un equilibrio tra una crescita basata sulla competitività e l’abbandono delle fonti fossili; ridurre le dipendenze eccessive dall’estero e aumentare la sicurezza (economica, commerciale, energetica, tecnologica, militare).

A complemento dei tre pilastri, il CC elenca delle misure trasversali rispetto a tutti i settori: semplificazione normativa e burocratica; riduzione delle barriere interne al mercato unico; apporto di risorse finanziarie adeguate; promozione di competenze allineate alle esigenze di mercato e posti di lavoro di qualità; maggiore coordinamento verticale delle policy, tra livello nazionale ed europeo.

In generale, vi sono alcuni elementi di preoccupazione rispetto alle ambizioni del CC e le vie delineate per metterle in atto. Innanzitutto, nel CC non si fa più riferimento esplicito allo European Green Deal (EGD), l’agenda della prima Commissione von der Leyen. È vero che gli obiettivi di decarbonizzazione (-90% di emissioni entro il 2040) restano un punto fermo, da raggiungere attraverso un maggiore allineamento dell’azione climatica con le altre politiche, industriale, commerciale, della concorrenza. Una visione più olistica dovrebbe quindi ispirare il preannunciato Clean Industrial Deal, che prenderà il posto dell’EGD. Tuttavia, si spera che questo non significhi depotenziarlo, viste le pressioni al ribasso sia in Europa, vedi le richieste di deregolamentazione sugli adempimenti di sostenibilità, sia dagli Stati Uniti, con il ritiro dagli Accordi di Parigi da parte dell’Amministrazione Trump.

Una seconda preoccupazione riguarda la spinta all’innovazione e le risorse disponibili. L’Ue dovrebbe migliorare le condizioni per produrre breakthrough innovation, riducendo le debolezze dei programmi esistenti. Emblematico è il caso di Horizon Europe, distribuito su troppi settori e con un accesso complesso e burocratico, oltre a non essere sufficientemente focalizzato sulla “innovazione rivoluzionaria”. La prossima programmazione europea per la ricerca e innovazione (il c.d. Framework Programme 10), attiva a partire dal 2028, dovrebbe essere riorientata su un numero più ristretto di priorità, concordate in sede politica.

Una proposta potenzialmente interessante nel CC è la creazione di un nuovo fondo, lo European Competitiveness Fund (ECF), che riunirebbe sotto un’unica gestione la miriade di programmi a gestione centralizzata (oltre a Horizon Europe anche Innovation Fund, InvestEU, EU4health, European Defence Fund). Lo ECF dovrebbe contribuire anche a co-finanziare gli IPCEI, importanti progetti di ricerca e innovazione in settori chiave per la competitività. Tali progetti nascono su iniziativa delle imprese private, che possono ricevere finanziamenti pubblici dai propri governi nazionali, in deroga alla normativa europea che generalmente vieta gli aiuti di stato. L’obiettivo del ECF sarebbe quindi di imprimere una direzione coordinata ai settori chiave per l’autonomia strategica europea, dall’innovazione all’industria, dalla sanità alla difesa, dotandoli di una capacità di investimento.

Nel 2022, l’allora Commissario al Mercato interno Thierry Breton propose qualcosa di simile, uno European Sovereignty Fund, finanziato anche attraverso l’emissione di nuovo debito pubblico europeo. La proposta, non accolta, venne sostituita con un approccio più moderato, ovvero un meccanismo di coordinamento (STEP - Strategic Technologies for Europe Platform) che ottimizza l'uso di fondi dei suddetti programmi a gestione centralizzata. Con la proposta dello ECF la Commissione continua sulla via della razionalizzazione e del coordinamento di programmi e fondi, creando sì uno strumento unico, con una governance per meglio allineare interessi pubblici e privati, nazionali ed europei (si parla di un nuovo Competitiveness Coordination Tool, una sorta di Semestre europeo per la competitività), ma senza che nel documento sia esplicitata una nuova iniezione di risorse fiscali europee.

Nel CC l’introduzione di nuove risorse proprie per il bilancio europeo, come il dazio verde alla frontiera (CBAM - Carbon Border Adjustment Mechanism) previsto a partire dal 2026, non viene collegata alle impellenti esigenze finanziarie della politica industriale europea. Piuttosto, le vie individuate sono quelle di un “refocussed EU budget” e di una Savings and Investment Union, con cui veicolare la ricchezza privata, presente in abbondanza in Europa, verso investimenti strategici. Eppure il Rapporto Draghi ha chiaramente indicato che il settore privato ha bisogno anche di capitale pubblico per finanziare un piano per la competitività da 800 miliardi l’anno – l’equivalente di un NGEU ogni anno – e che senza una decisione su nuove risorse proprie la capacità di spesa dell’Ue sarà necessariamente ridotta dall’impegno per trent’anni, a partire dal 2028,  di ripagare il debito emesso per il NGEU (circa 30 miliardi di euro l’anno).

*Mario Albertini Fellow del Centro Studi sul Federalismo e Ricercatrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

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