Olimpia Fontana
Commento n. 268 - 4 luglio 2023
La Commissione europea ha presentato un pacchetto di proposte per una revisione del bilancio a lungo termine europeo. Il Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) 2021-2027 è un bilancio diverso da quelli precedenti, perché approvato in tempo di pandemia e quindi pensato per far fronte a nuove necessità cui l’Ue ha dato risposta con il Next Generation EU (NGEU) e l’emissione di debito pubblico europeo. Ma la pandemia è stata solo l’inizio di una lunga serie di shock, con ripercussioni anche sulle finanze europee. La guerra in Ucraina, la crisi energetica, l’inflazione, la politica monetaria restrittiva della Bce, le tensioni geopolitiche ed economiche con Stati Uniti e Cina, non ultima la crisi climatica: tutto spinge per un maggiore sforzo del bilancio europeo, in termini sia di voci di spesa sia di fonti di entrata.
Nella sua proposta di revisione, la Commissione individua un numero limitato di capitoli di spesa da rafforzare. Innanzitutto, il supporto all’Ucraina. Dall’inizio della guerra, l’intero sostegno mobilitato dall’Ue e dai paesi membri a favore dell’Ucraina ammonta a 70 miliardi di euro. Per continuare a sostenere il paese, la Commissione propone la creazione di una Ukraine Facility da 50 miliardi di euro (33 sotto forma di prestiti e 17 sussidi) per il periodo 2024-2027. Secondo, per la politica migratoria e per le urgenze sul fronte esterno, è previsto un aumento di 15 miliardi. Terzo, l’aumento del servizio sul debito emesso per finanziare il NGEU costituisce un ulteriore aggravio: i 15 miliardi di euro inizialmente previsti non saranno sufficienti a coprire le spese legate all’aumento dei tassi di interesse, pertanto dovranno essere stanziati ulteriori 4 miliardi. Quarto, per far fronte a nuove esigenze amministrative (tenendo conto anche del maggior costo della vita) e per ripristinare la dotazione del Flexibility Instrument per le emergenze, sono previsti rispettivamente 1,9 e 3 miliardi di euro.
Tra le voci di spesa va menzionata poi la proposta di creare lo Strategic Technologies for Europe Platform (STEP), una piattaforma che dovrebbe potenziare con nuovi fondi (10 miliardi) strumenti già esistenti, come Innovation Fund, InvestEU, Horizon Europe, European Defence Fund, indirizzandoli a progetti mirati in tecnologie strategiche (critical clean-tech, biotech and digital and deep technologies), legate alla doppia transizione ecologica e digitale definita nel 2019 dallo European Green Deal. L’idea è di razionalizzare e coordinare la pletora di strumenti per investimenti strategici attraverso uno “sportello unico” nonché il rilascio di uno “Sovereignty Seal”, in modo da realizzare 110 miliardi di investimenti aggiuntivi, grazie all’effetto leva sui capitali privati. Qualcosa di molto simile era già stato fatto nel 2014 con il Piano Juncker, quando l’obiettivo era di ridurre il gap di investimenti rispetto al trend pre-crisi finanziaria 2008. Il focus di STEP è quello di mobilitare fondi per le tecnologie legate all’autonomia strategica europea.
Rafforzare e promuovere nuove produzioni europee in settori strategici, in cui la dipendenza dall’estero rappresenta un rischio per la sicurezza (economica, energetica, militare, politica) dell’Ue sta diventando il nuovo approccio della nascente politica industriale europea, in un contesto dove l’attenzione è sempre stata sul rispetto delle regole di concorrenza nel proprio mercato interno. Il cambio di passo si declina soprattutto come reazione rispetto a iniziative, ultima l’Inflation Reduction Act (IRA) degli Stati Uniti, che mirano a intervenire a sostegno della propria economia in settori mirati, fortemente esposti alla competizione internazionale. Tuttavia, rispetto alla proposta di uno European Sovereignty Fund, annunciato lo scorso settembre subito dopo l’IRA, con STEP la Commissione ripiega su uno strumento non nuovo e scarsamente dotato.
L’altro capitolo essenziale della revisione del bilancio pluriennale è la riforma sul lato delle entrate, collegate alle suddette nuove spese. La Commissione ha presentato in più riprese una proposta sulle risorse proprie dove ne figurano quattro nuove: una basata sugli introiti di un riformato Emission Trading System (ETS), il mercato europeo del carbonio per far pagare il giusto prezzo delle emissioni di CO2; una legata alle entrate del Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), l’aggiustamento pagato sulle importazioni in base al contenuto di carbonio incorporato nelle merci prodotte al di fuori dell’Ue; una fondata sulla quota dei profitti residui delle imprese multinazionali che sarà riassegnata agli Stati membri dell’Ue in base all’accordo raggiunto in sede Ocse in materia di riallocazione dei diritti di tassazione (Pillar One); infine un prelievo temporaneo sui governi nella misura dello 0,5% del valore dei profitti delle società. Questa fonte è di tipo “statistico”, ovvero calcolata sulla base di dati registrati dagli uffici nazionali di statistica e si configura come un prelievo sui bilanci pubblici, non come una tassa che grava sulle società.
Questa proposta sulle risorse proprie risulta poco ambiziosa, innanzitutto per una questione di dimensioni e tempistiche. In base alle stime fornite dalla Commissione, le nuove risorse proposte porterebbero un totale di nuove entrate per 36 miliardi, ma solo a partire dal 2028. In ogni caso un importo inferiore rispetto alle nuove necessità di spesa individuate dalla Commissione. In secondo luogo, in questo paniere di entrate ci sono risorse legate alle emissioni, che sono destinate, almeno per quelle interne, a diminuire coerentemente con la transizione ambientale. Inoltre, i negoziati in seno all’Ocse sulla riforma del Pillar One procedono troppo lentamente. Quindi sarebbe necessario individuare ulteriori fonti di entrata, per compensare l’andamento del gettito nel tempo.
Il Parlamento europeo ha proposto di diversificare e allargare il paniere delle fonti, per esempio con un “fair border mechanism”, una misura simile al CBAM, in cui l’esternalità negativa sono i salari sotto la soglia di povertà pagati ai lavoratori all’estero per produrre beni venduti poi in Europa – proposta nobile, ma che difficilmente passerebbe il vaglio delle regole del commercio internazionale. Oppure tasse come quella sulle transazioni finanziarie o sulle criptovalute. O, ancora, nuove risorse di tipo statistico che colpiscono comportamenti poco virtuosi dei paesi membri in tema ambientale o sociale. Questo tipo di entrate può essere accettato, nel momento in cui risulta un legame tra la risorsa di nuova creazione (per esempio, basata sui rifiuti alimentari) e una politica europea (la gestione dei rifiuti) e possono essere previsti meccanismi di correzione per compensarne gli effetti redistributivi tra Stati. Le alternative, in mancanza di un paniere di risorse proprie consistente e stabile, sarebbero o di ritornare a colmare le carenze di bilancio coi contributi nazionali in base alla propria forza economica, alimentando il problematico approccio del “giusto ritorno”, oppure ridimensionare le proprie ambizioni e il proprio ruolo in un contesto globale dominato da tensioni e aggressiva concorrenza.
Proposte di riforma delle risorse proprie non sono mancate negli ultimi anni, in particolare dopo il “Rapporto Monti” del 2016, in cui l’introduzione di nuove risorse proprie veniva giustificata soprattutto per la produzione di beni pubblici europei i cui benefici travalicano i confini nazionali. In tal senso, il sostegno all’Ucraina, la politica migratoria e la politica industriale europea per la doppia transizione sono casi di beni pubblici europei. Oltre a introdurre nuove risorse proprie servirebbero altri due strumenti. Il primo a livello europeo: la capacità fiscale europea, che ha iniziato a delinearsi con la pandemia, dovrebbe prevedere debito comune europeo in modo permanente, oltre la fine del NGEU, per finanziare in modo consistente e strutturale i beni pubblici europei. Il secondo a livello nazionale, con la possibilità per i paesi membri di avere lo spazio necessario a sostenere spesa pubblica per co-finanziare (coi fondi europei e capitali privati) investimenti in progetti nelle direzioni strategiche stabilite dall’Europa.
*Olimpia Fontana è Mario Albertini Fellow del Centro Studi sul Federalismo